Il cambiamento climatico è ormai un dato di fatto. Nulla lascia sperare che questa estate sia solo un capitolo strampalato di una storia altrimenti ordinaria. La storia ordinaria sarebbe quella dell’uomo che deve adattarsi ad un ambiente ostile a lui esterno. Invece, questa volta, l’ambiente ostile è comunque da lui condizionato. Infatti, questo cambiamento climatico è frutto dell’azione umana, e in particolare di quella che fa capo a un modello di sviluppo: il capitalismo.
Per quanto indifferenti o radicali si possa essere a riguardo, è innegabile che questo modello di sviluppo abbia distorto alcune dinamiche naturali del nostro pianeta. Molteplici approcci di critica sono stati rivolti al capitalismo per questo motivo. La differenza tra questi vari approcci sta proprio nel grado di condanna del modo di produzione in questione. Ne prenderemo in esame una parte.
Per alcuni, lo sfruttamento ambientale è insito nella mentalità stessa del capitalista. Il detentore dei mezzi di produzione, tramite il calcolo utilitaristico, sfrutta tutto l’ambiente a disposizione, sfrutta l’ambiente altrui tramite la delocalizzazione, e tutto senza curarsi del bene a cui deve la quotidianità, cioè la Terra. Per altri, il risultato a cui siamo giunti è solo dovuto a delle conseguenze negative del capitalismo, e non a delle caratteristiche congenite che farebbero del sistema un sistema parassita.
Le due proposte sono altrettanto divergenti, anche per quanto riguarda la rotta da seguire nel futuro. Nel primo caso bisogna fare completamente marcia indietro, considerare il capitalismo come un “errore di percorso” – ormai evidente – e guardare più ai sani modi di vita del passato. Nel secondo caso, invece, bisogna prendere atto di queste conseguenze distorsive del capitalismo e cercare un rimedio, senza sacrificare però il modo di produzione in sé.
Il primo approccio è anche noto come “la decrescita”. Il suo massimo teorico è il Prof. Serge Latouche. Tra la sua produzione prolifica, un’esposizione interessante e sintetica di questa teoria è contenuta nel suo saggio “La scommessa della decrescita”[1]. Il secondo, invece, è noto come quello della “crescita sostenibile”, cioè di un modello di sviluppo nel quale si cerca di fare attenzione anche all’ambiente, senza dover rinunciare all’aumento di benessere e della qualità della vita che – in media – il modo di produzione capitalistico ha portato.
Nel suo saggio, Latouche fornisce una descrizione del contesto produttivo ed economico del nostro secolo, seguita da un’esposizione della sua teoria e delle ragioni per cui è necessario un radicale cambio rispetto al presente. Il cammino intrapreso dall’umanità è diretto verso l’estinzione. Secondo Latouche, infatti, “l’uomo è responsabile della «deplezione» in corso della materia vivente e potrebbe addirittura esserne vittima.”[2] L’essere umano, nel perseguimento della crescita economica, consuma la biosfera prima che questa abbia la capacità di riprodursi. Questa è “l’impronta ecologica” dell’umanità. Inoltre, una parte dell’umanità ha contratto un pesante “debito ecologico” con l’altra. I paesi ricchi del Nord del mondo hanno un debito importante con quelli del Sud perché consumano una quota parte importante delle loro risorse.
L’impronta ecologica è sponsorizzata “dall’ortodossia economica”, la quale ha diffuso la credenza che la crescita sia necessaria per il miglioramento della qualità di vita e, in ultima analisi, anche per il miglioramento delle condizioni ambientali. Questa “egemonia” economica influisce negativamente sull’ambiente, poiché la salvaguardia ambientale è relegata solo a un secondo momento. In un primo momento è necessario crescere, volendo, a tutti i costi. In seguito, quando la qualità ambientale sarà diventata un bene scarso, forse potrà essere valorizzata.
Il pensiero economico formatta le menti umane, producendo concetti come la scarsità, il calcolo economico, l’homo œconomicus. L’economia non è una condizione naturale, ma una creazione artificiale. Viviamo in un mondo in cui l’accumulazione di capitale e la crescita portano alla competizione, alla produzione di diseguaglianza e al saccheggio della natura. La cultura moderna è stata conquistata in modo totalitario dall’economia.
Contro il “totalitarismo economicista”, quindi, non ci si può permettere una risposta di mezzi termini e mezze misure. “Un cambiamento radicale è una necessità assoluta”[3]. Qui entra in gioco la “decrescita”. Questo termine ha un significato molto più profondo di quello che potrebbe apparire a primo impatto. “Decrescita” non è solo un’azione, ma un progetto. Più precisamente, si tratta di un “progetto di una società autonoma ed economa”. Come è l’ateismo contro la religione, così “l’a-crescita” sarà per la teologia della crescita. Il programma si divide in nove punti.[4]
- Tornare a un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero a una produzione materiale equivalente a quella degli anni sessanta-settanta.
- Internalizzare i costi dei trasporti.
- Rilocalizzare le attività.
- Ripristinare l’agricoltura contadina.
- Trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi, fino a quando esiste la disoccupazione.
- Incentivare la produzione di beni relazionali.
- Ridurre lo spreco di energia di un fattore 4 (cioè di portarlo a ¼ dell’attuale).
- Penalizzare fortemente le spese per la pubblicità.
- Decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni.
Questa società della decrescita deve basarsi, inoltre, sull’autolimitazione di alcuni atteggiamenti, poiché “la trasformazione avviene solo con l’autotrasformazione e tutti i tentativi per cambiare radicalmente il modo di pensare e gli stili di vita imposti con la forza hanno prodotto terribili risultati”[5]. Questi imperativi si basano su una serie di “r”. Rivalutare, nel senso di cambiare atteggiamento nei confronti dell’egoismo e del lavoro; riconcettualizzare concetti come ricchezza/povertà, scarsità/abbondanza; ristrutturare; ridistribuire; rilocalizzare; ridurre; riutilizzare; riciclare.
Ciò viaggia verso una nuova forma di sustainability, che non si concentra sullo sviluppo ma sulla riproduzione delle risorse del pianeta. A causa della forte impronta ecologica dell’umanità, la sustainability non è garantita, poiché la Terra non ha il tempo necessario per recuperare dallo sfruttamento vorace delle sue risorse da parte dell’uomo. Sono già avvantaggiati gli artigiani e gli abitanti del Sud del mondo, “che hanno conservato gran parte dell’eredità dei modi ancestrali di fare e pensare e vivono generalmente in armonia con il loro ambiente; non sono predatori della natura.”[6]
L’eredità dei modi ancestrali è un altro tema importante all’interno della teoria di Latouche. Più precisamente, la convivialità, la “saggezza degli antichi”, è ciò che fa di una società vernacolare la migliore società possibile, poiché vive in armonia con l’ambiente (bassa o nulla impronta ecologica) e pensa alle generazioni future. Si tratta di un modo di funzionare “sostenibile e durevole” che non va confuso con “l’immobilismo conservatore”[7], poiché anche le società antiche avevano una loro forma di evoluzione. La società che viene auspicata è una società i cui consumi vengono autolimitati quantitativamente, con una grande attenzione alla qualità dei consumi alimentari. Da qui l’insistenza sui beni relazionali: non importa tanto il bene in quanto tale, ma il bene in quanto consente una relazione tra più individui. Questa nostalgia della convivialità vernacolare di una società frugale ormai estinta è al centro della società della decrescita.
Nel complesso, non ci troviamo di fronte a una delle critiche “classiche” del capitalismo. Se si percepisce uno sfondo marxista, questo svanisce nel momento in cui Latouche si scaglia contro lo sviluppo economico, invece caro a Marx. Latouche è erede della tradizione di Rousseau, dei pensatori utopisti francesi del ‘700, e, in particolare, di Durkheim e di Marcel Mauss. Da Rousseau deriva la divinizzazione dell’ambiente, nonché l’ottimismo antropologico e la critica alla scarsità. Da Durkheim deriva la concentrazione sui rapporti tra gli individui, e, quindi, l’idea di un ritorno a una società più conviviale. Da Mauss, l’importanza dello scambio e la sua dimensione non economica.
Latouche vuole il ritorno a una società più semplice, più conviviale, più povera (il che, data la riconcettualizzazione della povertà, non è visto come un male), dove tutti abbiano un lavoro, semplicemente lavorando di meno, ma, allo stesso tempo, senza avere ripercussioni sulla produttività. È una società dove bisogna autolimitarsi nei trasporti e rilocalizzare. Insomma, è una società che sotto la maggior parte dei punti si muove in aperto contrasto con la modernità e i suoi principi.
La visione di Latouche appare molto estrema e radicale. Lo è soprattutto se si considera che il capitalismo è un modo di produzione che è stato accompagnato da altri avvenimenti molto importanti, che si possono riassumere sotto l’insegna della modernità. L’aspetto più importante della nostra società non è tanto l’economia capitalistica, poiché è evidente che essa presenta delle lacune che portano a sgradevoli degenerazioni. Il fiore all’occhiello della società cosiddetta occidentale è quella modernità che si esplica nella secolarizzazione e nello Stato di diritto (cioè nel primato della legge). Invece, Latouche è convinto che bisogni negare il capitalismo in tutte le sue manifestazioni. D’altronde, ciò è inevitabile, poiché se si elimina l’economia di mercato, si elimina anche la modernità. Distruggendo la modernità, non si fa altro che tornare indietro verso forme di organizzazione sociale ed economica semplicemente più povere e più svantaggiate, nonché più ingiuste, dove non sarà più garantito lo stesso accesso universale alla sanità, e dove è molto più probabile che torni a imporsi la legge del più forte sul più debole.
Ciononostante, bisogna raccogliere gli aspetti positivi del dibattito proposto da Latouche. Non bisogna tanto rimuovere l’economia di mercato, ma piuttosto modificarne quelli che ne sono gli aspetti distorsivi, come le diseguaglianze eccessive, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali, i fallimenti del mercato, le esternalità. In questo senso, uno sviluppo sostenibile tramite l’introduzione di protocolli di limitazione alla produzione di agenti inquinanti, come già è stato più volte tentato, soprattutto a livello internazionale, andrebbe sostenuto con più enfasi. Così come la ricerca tecnologica verso mezzi di produzione e di trasporto più efficienti e meno inquinanti, o l’internalizzazione delle esternalità più nocive.
In tutto ciò lo Stato, così come l’Unione Europea, ha un ruolo fondamentale di indirizzo della ricerca tecnologica, di fissazione di limiti di inquinamento e di incentivi per garantire il loro raggiungimento. Recentemente, tuttavia, la loro azione è stata messa in discussione dall’aggravarsi delle condizioni economiche congiunturali. Al fine di garantire un maggiore benessere dei cittadini, pertanto, bisognerebbe tornare a guardare al lato degli investimenti e della redistribuzione. La speranza in un mondo migliore non dovrebbe trascinare verso la nostalgia di un mondo passato. È giusto mantenerne i valori e i principi, ma non bisogna dimenticare il percorso svolto per arrivare fino a qui. La modernità è una conquista alla quale non si può rinunciare.
[1] Latouche, S., 2007, La scommessa della decrescita, ristampa 2013, Feltrinelli, Milano.
[2] Pag. 7
[3] Pag. 10
[4] Pag. 169
[5] Pag. 109
[6] Pag. 17
[7] Pag. 18