moneta

 

 

Recentemente è stato pubblicato in Italia un libro che approfondisce un tema, la moneta, troppo spesso oggetto di confusione in ambito sia accademico che mediatico. Si tratta di La natura della moneta, scritto nel 2004 dal sociologo di Cambridge Geoffrey Ingham e tradotto e pubblicato nel maggio 2016 da Fazi Editore.

 

L’importanza dell’argomento in questione e i problemi relativi alla sua trattazione sono da molti riconosciuti; ad esempio, Pavlina Tcherneva, Associate Professor di economia al Bard College di New York, sostiene che «poche istituzioni sono importanti per il benessere umano come l’istituzione della moneta. Ancora meno sono ancora tanto grossolanamente fraintese» (Tcherneva, 2016).

Posizioni diverse e contrastanti riguardo alla natura della moneta sono sempre esistite, eppure da un certo momento in poi la confusione si è amplificata: più precisamente da quando la dialettica tra le diverse discipline attinenti alle scienze sociali è iniziata a mancare. Il principio di questo distaccamento è individuato dall’autore del libro nel Methodenstreit iniziato nel 1880.

Prima di spiegare di cosa si tratta è utile chiarire che in quegli anni alla scienza economica iniziava ad andare stretto l’appellativo di ‘scienza sociale’ e, dunque, prendevano forma i primi tentativi, andati poi a buon fine, di smarcarsi ed imporsi sulle altre discipline che studiavano il funzionamento dei sistemi economico-sociali. La political economy prese il nome di economics, per rimarcare la purezza e il rigore scientifico di questa nuova branca teorica.

Il Methodenstreit rappresenta la disputa metodologica avvenuta alla fine del XIX secolo tra la scuola austriaca e la scuola storica tedesca circa il posto della teoria generale nella scienza sociale e l’uso della storia per spiegare le dinamiche dell’azione umana. La controversia ha portato alla divisione del lavoro intellettuale nelle scienze sociali: da una parte, l’ortodossia economica; dall’altra, la sociologia e altre branche ad essa affini. Gli effetti di questa rottura si rivelarono insoddisfacenti per entrambe le fazioni, e per la conoscenza in generale, dal momento che gli economisti prestarono sempre meno ascolto agli avanzamenti teorici fatti dalle altre scienze sociali, mentre quest’ultime finirono per disaffezionarsi dalle tematiche economiche, come la moneta, poiché non reputate di loro stretta competenza.

 

Con questo libro, l’autore prova a riconciliare questa spaccatura, fornendo una ricostruzione storica, sociologica, antropologica sulla natura della moneta, partendo da un confronto tra le due teorie monetarie fondamentali in campo economico: quella metallista della moneta-merce e quella nominalista della moneta-credito. Il tentativo, ad avviso di chi scrive, è più che riuscito e in questa sede si cercherà di renderne atto.

 

Ingham esordisce sostenendo che la moneta ha una duplice natura: la prima attiene alle funzioni che è in grado di esercitare – come mezzo di scambio, unità di conto, mezzo di pagamento, riserva di valore; l’altra, ha a che fare con il potere dispotico, manifestato nelle relazioni sociali che vengono a determinarsi all’interno del suo processo di produzione. È sbagliato, tuttavia, giustificare l’esistenza e la natura della moneta per le sole funzioni che essa svolge. Ciò rappresenta un errore categoriale molto comune tra le teorie economiche, ortodosse ed eterodosse; errore che resiste sin dai tempi dell’antica Grecia con le prime coniazioni. «Per due millenni  dopo il VII secolo a.C. – sostiene Ingham -, la “moneta” è stata identificata con la moneta metallica, ed è cominciata la confusione intellettuale sulla sua natura» [p. 161]. Anticipiamo già che non tutti rimasero abbagliati dal feticcio luccicante della moneta metallica, ma, a fianco della concezione ortodossa della moneta-merce, se ne sviluppò una più eterodossa che riconosce la moneta per ciò che realmente è, al di là delle funzioni o della forma che assume – ossia misura del valore astratto dei debiti, o unità di conto. Keynes, per dire, non pensava «che l’atto della coniazione» determinasse «un cambio così significativo come a essa viene comunemente attribuito» (Keynes, 1930, cit. in Ingham, 2016, p. 162).

 

Come osserva Schumpeter, ci sono «soltanto due teorie della moneta degne di questo nome […] la teoria della moneta-merce e quella basata sui diritti di credito. Per la loro stessa natura esse sono incompatibili» (Schumpeter, cit. in Ingham 2016, p. 23). In questa articolo esamineremo la ricostruzione critica di Ingham della teoria della moneta-merce. Nella successivo, presenteremo la seconda.

 

 

La teoria metallista della moneta-merce

 

Non ci può essere unità di misura infallibile di lunghezza, peso, tempo, o valore a meno che non ci sia un oggetto in natura a cui lo standard stesso possa riferirsi.

Ricardo, in Sraffa, 1951

 

La teoria della moneta-merce «opera all’interno di un modello dell’economia “reale” basato essenzialmente sul baratto, in cui la moneta è il mero simbolo dei rapporti reali di scambio sottostanti» [p.65]. Si dice che la moneta è un “velo neutro” steso sopra i meccanismi dell’economia “reale”, non una forza economica sui generis. Nel lungo periodo la moneta può influenzare soltanto il livello dei prezzi, qualora l’operato delle autorità è tale da ostruire il normale e spontaneo funzionamento del mercato; non ha invece alcun impatto sulle variabili economiche fondamentali. Per questo motivo può essere di fatto omessa dai modelli economici, nei quali le relazioni tra merci vengono espressi nei termini del tasso di scambio “reale”.

 

L’analisi ortodossa della moneta trova le sue radici nella concezione aristotelica della moneta come merce, secondo cui la moneta viene concettualizzata come una “cosa” che agisce come mezzo di scambio. Il valore della moneta è determinato dal valore del metallo prezioso che la rappresenta, che a sua volta è determinato «temporaneamente dall’offerta e dalla domanda, in modo permanente e in media dai costi di produzione» (Mill cit. in Ingham, 2016).

 

Per l’analisi ortodossa, dai due principi sopra citati (moneta-merce e neutralità della moneta) segue logicamente che la moneta è successiva al mercato, frutto della razionalità economica e della massimizzazione dell’utilità individuale: nasce essenzialmente come mezzo per rendere più efficiente gli scambi eliminando i costi e gli inconvenienti del baratto.

 

Un altro caposaldo dell’analisi ortodossa è la teoria quantitativa della moneta secondo la quale il livello dei prezzi è una funzione del rapporto tra la quantità o stock di moneta circolante e la quantità di merci scambiate. Le forme di passività bancarie vengono riconosciute come moneta esclusivamente se sono convertibili in oro e/o in altri metalli preziosi. Altre forme di credito, come cambiali o “quasi-moneta”, vengono semplicemente escluse dal calcolo. Quindi, l’analisi ortodossa arriva a postulare una distinzione assai dubbia e anacronistica per un sistema capitalistico tra credito e valuta (inteso come “moneta propriamente detta”). Secondo Ingham si tratta di una distinzione irragionevole; l’autore, infatti, sostiene che «nonostante la crescita inesorabile della moneta-credito bancaria, gli economisti accademici ortodossi, sempre più disperati, si sono aggrappati a questa teoria anacronistica». Questo, come vedremo, è particolarmente vero se si considera il ritorno alla ribalta del monetarismo in seguito alla crisi degli anni Settanta e agli effetti derivanti dai tentativi di controllare l’offerta di moneta da parte della Federal Reserve, tra cui in primis la cartolarizzazione.

 

Dopo  aver presentato gli aspetti salienti dell’analisi ortodossa, Ingham ne fornisce un’accurata critica, esaminando punto per punto i suoi principi fondamentali: l’assunto della moneta-merce, la neutralità della moneta, la teoria quantitativa.

 

Identificando la moneta con la forma merce che la raffigura e ponendo così tanta enfasi sulla funzione di mezzo di scambio, la teoria ortodossa non ha saputo risolvere l’equivoco rappresentato dalla moneta di conto, ossia la misura del valore dei beni. Secondo l’interpretazione ortodossa, quando non fissata arbitrariamente (a “numeraire”) come nel modello di equilibrio economico generale walrasiano, la particolarità della moneta come unità di conto è una conseguenza del fatto che essa sia scambiabile nel mercato con le altre merci e quindi in grado di assegnare un valore alle merci nel momento dello scambio (l’esempio che spesso ricorre è quello delle sigarette utilizzate come mezzo di scambio – e quindi “moneta” – nelle carceri durante la seconda guerra mondiale). Per l’analisi ortodossa è il valore di scambio di mercato della moneta-merce (o della sigaretta-merce) che produce un’unità di conto. «Ma a meno che il valore di scambio di una sigaretta sia fissato in termini di un’altra merce-cardine, il suo valore di scambio varia da transazione a transazione per la stessa merce [1 sigaretta=5 angurie, 1 sigaretta=3 meloni, nda]. Di conseguenza, non si comporterebbe da moneta» [p. 51]. Ad esempio, ricorda Ingham, il sistema aureo si reggeva sulla promessa di cambiare una banconota, o un’altra forma di pagamento denominata nell’unità di conto, con una quantità di metallo prezioso. La parità veniva fissata da un’autorità prestabilita, non dal mercato. Dunque, come fanno diversi rapporti di cambio a produrre un’unica unità di conto? Secondo l’interpretazione convenzionale della scienza economica, la risposta risiede nel fatto che dallo scambio emergerebbe spontaneamente uno “standard della sigaretta”. Questa risposta, tuttavia, soffre di un problema circolare. Come può uno standard della sigaretta rappresentare il prezzo di equilibrio al quale si incontrano domanda e offerta di sigarette? In mancanza di una unità di conto, le sigarette continuerebbero ad assumere valori multipli. Deve quindi esistere una moneta di conto, cioè un’unità di misura stabile del valore. Ne segue che la moneta, in quanto unità di conto astratta del valore, è logicamente anteriore e storicamente precedente allo scambio del mercato. Se dunque non è il processo di scambio a determinare il concetto astratto di moneta di conto, da che cosa nasce? Questo lo vedremo nel prossimo articolo.

 

In secondo luogo, se la moneta fosse una merce al pari di qualsiasi altra, perché la sua offerta è severamente controllata dalle istituzioni preposte alla sua emissione? Emerge, in questo caso, un problema di natura politica oltre che teorica, che Ingham sbriga sostenendo che «la scarsità di moneta è sempre il frutto di assetti sociali e politici attentamente costruiti».

 

Infine, l’identificazione della moneta con la merce configurata per rappresentarla solleva ulteriori perplessità se guardiamo al processo di de-materializzazione della moneta in corso a partire dagli sviluppi del capitalismo del XVIII e XIX secolo, sino alla seconda metà del XX secolo, quando, dopo lo sganciamento definitivo del dollaro dall’oro, è venuto ad instaurarsi un sistema monetario di puro credito. Nel corso degli ultimi secoli, infatti, la moneta ha assunto innumerevoli forme – dai metalli preziosi, ai metalli comuni, dalle banconote ai bit elettronici. Con riguardo al processo di de-materializzazione, una cieca osservanza della teoria metallista della moneta-merce rischia di portare a sostenere posizioni strampalate e paradossali quali la “fine della moneta”, che vengono demistificate e respinte dall’autore nel capitolo che precede le conclusioni.

 

Come già osservato in precedenza, il principio di neutralità della moneta porta l’analisi ortodossa a non prendere seriamente in considerazione la particolarità della moneta-credito capitalista creata dalle banche. La presenza del credito mette in difficoltà un’analisi fondata sull’economia reale come quella ortodossa, la quale, con Wicksell, economista svedese a cavallo tra XIX e XX secolo, arriva a identificare il sistema bancario più come camera di registrazione dei pagamenti interni «per mezzo del sistema giroconto e dei trasferimenti contabili» (Wicksell, cit. in Ingham) piuttosto che come un’entità autonoma e determinante del ciclo economico. Secondo la teoria classica, “i depositi creano prestiti”, per la stessa ragione secondo cui i risparmi determinano gli investimenti; alla base risiede il principio di scarsità delle risorse. Questa concezione della moneta e dei risparmi venne già criticata da Schumpeter prima, e da Keynes poi, gettando le fondamenta teoriche alla teoria post-keynesiana della moneta endogena, riassunta da Randall Wray, economista americano dell’Univeristy of Missouri-Kansas City, in tre preposizioni sintetiche: «Primo, i prestiti creano depositi, secondo, i depositi creano riserve, e terzo, la domanda di moneta induce l’offerta di moneta» (Wray, cit. in Ingham, 2016).

 

Per di più, se la moneta fosse neutrale, si chiede Ingham, come si spigherebbero i due grandi disordini monetari del secolo scorso, ossia la crisi degli anni Settanta e la deflazione giapponese? È evidente che secondo la teoria dominante le cause di questi squilibri vanno ricercate al di fuori del modello; sono appunto “esogene”. Ciononostante, con particolare riferimento al primo dei due casi, una comprensione adeguata della natura della moneta e uno sguardo critico alle politiche disinflazionistiche adottate dai governi liberisti consentirebbero di comprendere meglio l’emergere del capitalismo finanziario e le trasformazioni nelle relazioni sociali in atto a partire dagli anni Ottanta. Scrive Ingham, «quando le autorità tentano di regolare e controllare una qualsiasi forma di strumento di credito o di “quasi moneta”, il sistema finanziario capitalista privato ne crea di nuovi che non sono ancora regolamentati». Questo aspetto fu notato sin dalle sue prime manifestazioni anche dall’economista americano Hyman Minsky, il quale sosteneva che la moderna cartolarizzazione fu una risposta alla politica iniziata dal governatore Volker nel 1979, portando i tassi di rifinanziamento della FED sopra il 20% (Minsky, 1987, cit. in Wray, 2009).

 

Per concludere, la teoria ortodossa della moneta-merce non è in grado di rispondere alle tre domande fondamentali che secondo il sociologo inglese ciascuna teoria monetaria dovrebbe porsi: che cos’è la moneta? Come viene prodotta; o come entra nella società? Come si determina il valore della moneta? Considerato che «la concezione dominante della moneta qui riassunta è parte integrante del paradigma dominante dell’economia moderna», a Ingham, così come a noi tutti, viene da chiedersi «com’è possibile che fondamenti intellettuali così inadeguati costituiscono ancora la base per la conduzione degli affari monetari?». Ai posteri, sempre loro, l’ardua sentenza.

 

 

Bibliografia

 

Ingham, G. 2016. La natura della moneta. Fazi Editore.

 

Keynes, J. M. 1930. A Treatise on Money. New York. Harcourt, Brace and company.

 

Keynes, J.M. 1936. The General Theory of Employment, Interest and Money, trad. it. La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, 2013.

 

Minsky, H. P. 1987. Securitization, Handout Econ 335A, Fall, mimeo, in Levy archives, published as Policy Note, 2008/2, Levy Economics Institute

 

Tcherneva, P. 2016. Money, Power, and Monetary Regimes. Levy Economics Institute, Working Paper No. 861

 

Wray, R. 2009. The rise and fall of money manager capitalism: a Minskian approach. Cambridge of Journal Economics 2009, 33, 807-828.

 

Wray, R. 2014. From the State Theory of Money to Modern Money Theory: An Alternative to Economic Orthodoxy. Levy Economics Institute, Working Paper No. 792.

Di Enrico Turco

Studente del Master in Economics presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.