kalecki

 

È possibile creare una macroeconomia alternativa? E fino a che punto l’indagine microeconomica è l’unica veramente valida e realistica? Ragionare sulla piena occupazione, sulle differenze di classe e sul ruolo attivo dello stato  è utopistico e inutile? Infine, tradizioni diverse possono incontrarsi e influenzarsi tra loro nella formulazione di un nuovo approccio economico?

La teoria neoclassica spiega i fenomeni economici partendo da fondamenti microeconomici, come ad esempio la disoccupazione causata dalla rigidità dei salari nell’adeguamento a variazioni del livello generale dei prezzi, l’uguaglianza tra costi e ricavi marginali come limite alla produzione, la validità della legge degli sbocchi (l’offerta crea la domanda e tutto ciò che è risparmiato viene automaticamente investito) e la moneta come“velo che ricopre gli scambi”.

L’approccio di Kalecki, radicalmente alternativo, studia la realtà economica attraverso “il punto di vista della totalità”, contrapponendosi all’indagine marshalliana basata su un immaginario individuo rappresentativo. La sua indagine si focalizza principalmente sul ruolo attivo, finalizzato essenzialmente al profitto, che hanno imprenditori e capitalisti nella determinazione del prodotto finale.

 

Profitti ed investimenti

 

In una prima versione della sua teoria macroeconomica, Kalecki pone l‘accento su come il reddito ed il consumo aggregato siano distribuiti in maniera diversa tra le due classi principali: il reddito dei lavoratori consiste nei salari, quello dei capitalisti è composto dai profitti. Come nella teoria di Keynes anche in quella dell’economista polacco la propensione al consumo varia a seconda delle diverse forme di reddito percepito (e, implicitamente per il primo, a seconda dei due gruppi sociali). Secondo questo ragionamento la nota equazione del reddito:

 

Y = C + I

 

diventa

 

Y = W + P = Ck + Cw + I

 

dove W rappresenta i salari, P i profitti, Ck il consumo dei capitalisti, Cw il consumo dei salariati, I gli investimenti.

Kalecki assume l’ipotesi dei classici (Smith, Ricardo, Malthus, Marx), secondo cui i percettori di salario spendono tutto ciò che consumano, mentre la spesa per consumi dei capitalisti equivale a 0. l’equazione si trasforma secondo i seguenti passaggi:

 

P = Cw – W + I = I

 

Questa formulazione, anche se basata su un’ipotesi estrema, ci aiuta a comprendere come la spesa dei capitalisti sia determinante per la composizione dell’output finale. In un certo senso si può affermare che la classe capitalistica “si autofinanzia”; ogni investimento, allo stesso tempo, “è (…) spesa per un imprenditore e realizzazione di profitti per altri capitalisti” (D.Besomi).

Per l’economista polacco perciò, la sua equazione deve essere letta “da destra verso sinistra”: sono le decisioni di investimento che determinano i profitti, non il contrario, in quanto “i capitalisti possono sempre scegliere quanto spendere, ma non possono decidere quanto guadagnare”.

 

Ciò contraddice quanto affermato dal mainstream in due aspetti: il primo secondo il quale il profitto è figlio di un’accurata e razionale ottimizzazione che ogni singola impresa separatamente calcola, in una logica microeconomica che si riflette anche nella formulazione della domanda aggregata come somma delle singole domande dei consumatori e dell’offerta aggregata come somma delle singole offerte delle imprese; il secondo per il quale è il risparmio che permette gli investimenti delle imprese. In realtà è vero il contrario: le decisioni di spesa dei capitalisti (l’investimento) permettono la creazione di un surplus che può essere messo da parte sotto forma di moneta oppure, più realisticamente, riutilizzato per finanziare l’attività economica.

 

A questo punto sorge una questione: il solo finanziamento che le imprese fanno a se stesse può consentire la loro sopravvivenza e la crescita? Se infatti gli investimenti resteranno uguali a quelli del periodo precedente, i profitti realizzati basteranno appena a finanziare quelli necessari per il nuovo periodo, mantenendo stazionario il livello della produzione e dell’occupazione.

 

Una prima soluzione va cercata nelle fonti esterne private, ovvero nel sistema bancario, in grado di erogare i fondi necessari alle imprese per espandere le loro attività. In questo caso Kalecki riserva un ruolo per il tasso d’interesse, come variabile da prendere in considerazione per le decisioni di investimento. Tuttavia, a differenza della teoria ortodossa (e in accordo con Keynes), questo non indica il punto d’equilibrio che uguaglia la domanda e l’offerta di prestiti sul mercato dei fondi, bensì mostra la preferenza per la liquidità delle banche e, di riflesso, la loro disponibilità a spendere/concedere a prestito (con tasso d’interesse più alto, questa sarà minore, viceversa con un tasso più basso). Tale disponibilità a sua volta dipende dalla profittabilità attesa dei prestiti che praticano, poiché anch’esse sono imprese capitalistiche che rispondono alle stesse logiche dei loro clienti. Questa considerazione rafforza le conclusioni che derivano dall’interpretazione dell’equazione dei profitti, dal momento che nel modello la crescita viene a dipendere essenzialmente dalle decisioni di spesa della classe capitalista.

 

Spesa pubblica e spesa privata

 

A questo punto la trattazione di Kalecki incontra quella di Keynes; l’equilibrio in questa economia semplificata senza rapporti commerciali con l’ estero non corrisponde necessariamente ad una situzione di piena impiego. Il settore capitalistico infatti genererà un livello di investimenti tale da avere dei ritorni in profitti, ma non si spingerà oltre, dacché non avrà incentivi ulteriori a espandere la produzione una volta soddisfatta la condizione ex-post P=I. Di conseguenza, ulteriori incrementi d’occupazione potranno essere raggiunti solo attraverso l’apporto del settore governativo. Gli effetti della prima soluzione si possono notare nell’equazione generale del reddito corretta secondo l’equazione dei profitti, illustrata, nel caso generale, nella tabella 2 (nella 1 è presente il solo settore privato, composto da salariati e capitalisti) :

 

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Un deficit di bilancio (ovvero un avanzo di spesa pubblica rispetto alla tassazione) farà aumentare i profitti del settore privato determinando un effetto positivo sul reddito nazionale. Kalecki aggiunge inoltre che:

 

Se il settore governativo risparmia (spende meno di quanto riceve dai rientri fiscali), le sottrazioni ai profitti saranno maggiori delle aggiunte ai profitti (…). Al contrario, un deficit governativo è una fonte positiva di profitti, perché fluiscono più soldi dal settore governativo per poi far sì che ci siano più entrate nel settore commerciale, rispetto a quanto poi il governo chiederà indietro sotto forma di tasse”.

 

Dal suo punto di vista, pertanto, il perseguimento del principio del bilancio in pareggio, nel calcolo della contabilità nazionale, rappresenta un limite per l’espansione dei profitti. Invece un avanzo di bilancio, ovvero un eccedenza delle entrate dello stato rispetto alle sue uscite, riduce i profitti anziché favorirli, diversamente da quanto affermato dalle teorie sull’effetto spiazzamento della spesa pubblica su quella privata. Senza la prima, anzi, è praticamente impossibile conseguire profitti superiori al periodo precedente, a meno di non affidarsi alla domanda estera.

 

Per Kalecki, infatti, la possibilità del pieno impiego, seppure realizzabile da un punto di vista teorico tramite l’intervento statale, può incontrare ostacoli di carattere politico. In questa situazione il potere contrattuale dei salariati è più forte, e gli imprenditori per evitare di perdere la capacità di controllare il livello della produzione e la quantità di forza lavoro da assumere possono decidere di rivalutare i prezzi. Il margine di ricarico (mark-up) praticato su questi non è considerato fisso, a differenza di molti modelli contemporanei, ma è variabile; ciò significa che l’inflazione non è indice di un eccesso di spesa, piuttosto sintomo di un conflitto distributivo tra le due classi.

 

Ragionando in termini economici, la piena occupazione porta a una migliore distribuzione del reddito alle classi salariate. Tuttavia, le decisioni di investimento sono condizionate dai profitti; pertanto una volta raggiunto il limite alla loro espansione (costituito, appunto, dal pieno impiego), il livello degli investimenti si riduce, provocando il rallentamento dell’attività economica che a sua volta genera disoccupazione e riduzione dei salari.

 

Affinità e divergenze tra i Marxisti e Kalecki

 

Per spiegare i limiti strutturali dell’organizzazione delle economie capitaliste, Kalecki ricorre alla tradizione marxista e in particolare al contributo di uno dei suoi massimi esponenti, Rosa Luxemburg.

L’analisi marxista classica teorizza, infatti, che il capitalismo si scontrerà sempre con una insanabile contraddizione interna, dal momento che la classe imprenditoriale tenderà da una parte a ricercare profitti sempre più alti, ma dall’altra ad abbassare il livello dei salari, riducendo i consumi e, di conseguenza, i ricavi derivati dalla vendita delle merci prodotte. Per risolvere questa contraddizione, i capitalisti si affideranno alla domanda esterna tramite l’aumento delle esportazioni, trasformando però il sistema in imperialismo al fine di controllare le fonti di approvvigionamento esterne (i paesi sottosviluppati della periferia) e mantenere la sua stabilità interna.

 

L’economista polacco non concorda del tutto con le conclusioni pessimistiche e radicali  della teoria economica della Luxemburg (e del Marxismo). Se è vero che l’intellettuale tedesca aveva incluso tra le soluzioni per impedire un crollo della domanda necessaria a sostenere il sistema anche quella degli acquisti pubblici (in particolare per gli armamenti), non era riuscita, secondo Kalecki, ad anticipare “la possibilità di contrastare tale crisi mediante i “mercati esterni” creati dagli acquisti di governo”.

 

La crisi del ‘29 era, dal suo punto di vista, un’occasione per allargare il volume degli occupati tramite un vasto programma di investimenti pubblici e, di conseguenza, migliorare la condizione della classe operaia. La classica soluzione rivoluzionaria marxista pertanto era rivista e corretta attribuendo alla spesa pubblica un ruolo centrale per la trasformazione della società, non limitandosi semplicemente ad annunciare la crisi del sistema capitalistico e a delineare un ordine nuovo che sarebbe necessariamente sorto da questa. Non va dimenticato tuttavia che Kalecki nutriva un fondamentale pessimismo sul successo di riforme economiche calate dall’alto, tanto care alla filosofia di Keynes, proprio a causa di tutte le implicazioni politiche legate a un regime di pieno impiego.

 

Conclusioni

 

Oggi, di fronte ad un piatto dibattito teorico, dominato dal mainstream e da un approccio microeconomico nella ricerca di soluzioni per affrontare e risolvere problemi macroeconomici, da più parti c’è una crescente richiesta di un paradigma alternativo, che recuperi alcuni filoni di pensiero trascurati dalla maggior parte della ricerca accademica, come quello classico (che comprende lo stesso Marx) e quello keynesiano. Il fatto che due autori appartenenti a epoche e culture diverse siano giunti (seppur con metodi e strumenti d’analisi differenti) a conclusioni simili, sottolinea come la necessità di approfondimento e di considerazione nei confronti di più paradigmi sia determinante per lo sviluppo della teoria economica . Per questo motivo il lascito più grande di Kalecki sta nell’aver offerto una efficace e valida  “sintesi eterodossa” tra questi due economisti, sforzo che purtroppo non è stato opportunamente riconosciuto e doverosamente studiato.

 

Nel solco di questo grande pensatore si può e si deve ricostruire un’analisi economica plurale, aperta, consapevole della complessità del fenomeno che studia e attenta alla dimensione olistica della realtà. A chi argomenta che il compito dell’economia è quello di dare risposte a problemi pratici, mettendo da parte le discussioni teoriche, rispondiamo citando una nota frase del celebre psicologo della Gelstat Kurt Lewin (per cui la totalità deve essere considerata, come per Kalecki, molto più che la semplice somma delle sue parti), secondo il quale “non c’è niente di più pratico di una buona teoria”.

 

Fonti

 

– Daniele Besomi, “Michal Kalecki: la dinamica economica tra materialismo e meccanicismo”, 1988

–  Michal Kalecki, “Aspetti politici del Pieno Impiego”, 1942

– William F. Mitchell, “Why budget deficits drive private profit”, 2010

– Claudio Sardoni, “Unemployment, Recession, Effective Demand: the Contributions of Marx, Keynes e Kalecki”, Edward Elgar, 2011

– Roberto Romani, “L’ economia politica dopo Keynes. Un profilo storico”, Carocci, 2009