Nei miei precedenti articoli ho spesso preso una posizione chiara sul ruolo dell’economia in quanto disciplina sociale: è qualcosa di impossibile da astrarre e studiare da sola. Al contrario, tanti sono i campi dai quali attingere esperienze. La scienza politica è una scelta quasi obbligata, vista l’assurdità di costruire un sistema politico (o economico) senza contare sul suo sostrato economico (o politico). Lo stesso discorso si potrebbe fare in campo legale. Le leggi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) regolano il commercio internazionale e influiscono sulla creazione di aree di libero scambio o di unioni doganali; le decisioni prese dalla Commissione Europea e dal Parlamento Europeo, le deliberazioni del Consiglio Europeo e dell’Eurogruppo prendono nelle loro mani il destino dell’Unione Europea, così come quello dell’Eurozona; o ancora andrebbe evidenziata l’importanza delle Convenzioni sui diritti economici, sociali e culturali. Questi sono tutti esempi di come le tre principali scienze sociali interagiscano fortemente tra di loro. Ma i campi da cui attingere non finiscono qui. L’economia normativa riprende una serie di discorsi filosofici e di politica economica; l’economia comportamentale parte dalla psicologia; e l’economia della scienza riguarda lo sviluppo e la ricerca e l’analisi costi-benefici negli ambienti accademici, pubblici e privati che siano.


Esiste, però, un campo ancora poco esplorato dagli economisti: la letteratura. Forse a ragione, direbbe un economista: è la divisione del lavoro tipica di tutte le società. È abbastanza comune sentire di esperti legali o politici che si cimentano in scritti di natura economica. Un esempio tra tutti, Robert Gilpin, studioso di relazioni internazionali che nel 1987 pubblicò The Political Economy of International Relations. Nonostante il cattivo tempismo (solo due anni più tardi ci fu la caduta del Muro di Berlino), l’opera di Gilpin rimane ancora oggi un classico della politica economica internazionale. È invece abbastanza raro sentire di scrittori professionisti prendere penna e calcolatrice, o scrutare grafici e tabelle interminabili, zeppi di numeri e formule matematiche esenti dalle normali regole grammaticali. Invece, deve essere esattamente l’approccio ciò che distingue uno scrittore di lettere da uno di numeri e formule: romanzieri e scrittori, infatti, potrebbero darci uno spunto interessante, vedendo le cose con occhi differenti. Il loro metodo parte dal basso, dalle interviste ai passanti che, sul marciapiede, raccontano con voce timida e sopraffatta le loro esperienze; per arrivare in alto, unendo i punti dello schema delle relazioni internazionali e della governance economica, formale o informale che sia. È così che il giornalista e scrittore uruguaiano, Eduardo Galeano, ha raccontato la storia politica ed economica del suo continente.

 

Nel maggio del 2014 venni a conoscenza di un vecchio volume dalla copertina nera e rossa, con una mappa delle Americhe sullo sfondo. Il libro era scritto in spagnolo, e non era di facile comprensione: tanti erano i termini tecnici e altrettanti i nomi da ricordare. Las Venas Abiertas de America Latina di Eduardo Galeano rappresenta una triplice metafora. Dei fiumi che scorrono per miglia e miglia, donando la vita a milioni di persone; del sangue versato dai popoli del Sud America contro lo scempio coloniale, che per secoli è uscito lentamente dalle loro ferite; e dell’inestricabile sistema circolatorio che Galeano ha costruito, in cui il cuore del lettore si vede portare un’infinità di nomi, di colpevoli, di sconfitti, di fatti, fino a farlo esplodere. Eppure, nonostante il tono romanzesco, Las Venas Abiertas de America Latina snocciola dati su dati. Il modo migliore per presentarlo, forse, è quello di storia dell’economia latinoamericana. Perché qui imperialismo, violenza, politica, sviluppo e diseguaglianza racchiudono tutti lo stesso significato, che poco a poco svela al lettore la storia di un continente lontano.

 

Quando Galeano finì di scrivere il libro, trentacinque anni fa, l’America Latina era un arcipelago di dittature e regimi autoritari. Il peronismo argentino era vivo e vegeto, nonostante l’altalenante situazione politica del Paese; in Brasile la presidenza di Goulart era stata deposta dalle forze armate, mentre in Uruguay il presidente Pacheco aveva da poco inaugurato uno stato di emergenza che, pochi anni a quella parte, avrebbe portato a un regime civile-militare. Solo in Cile, tra i principali paesi, si erano tenute elezioni democratiche, che avevano visto trionfare il socialista Salvador Allende. Ma già nel 1970, leggendo Galeano tra le righe, si intuiva che quel piccolo paradiso democratico non sarebbe durato a lungo. Nel 1973, con l’aiuto degli Stati Uniti, Augusto Pinochet riuscì a inaugurare una dittatura quasi ventennale. Oggi l’America Latina vanta una serie di sistemi politici che, per quanto acerbi, sono tra i più attivi nel consolidamento democratico. Il protocollo di Ushuaia allegato al trattato del MERCOSUR, rappresenta una clausola di democraticità necessaria per far parte dell’organizzazione. La recente VII Cumbre de Las Americas che ha visto anche la presenza di Barack Obama, d’altra parte, è un esempio lampante di volontà di dialogare con le grandi potenze e con nuovi, possibili alleati. Le difficoltà, tuttavia, sono evidenti, e anzi, non tentano neanche di essere nascoste. La possibile presenza del Venezuela socialista nel MERCOSUR e la difficile condizione politica del Paraguay sono chiare lacune nella definizione della democrazia in America Latina. Così come il relativo insuccesso della VII Cumbre è un necessario ostacolo nell’integrazione politica ed economica latinoamericana.

 

Ma ritorniamo a Galeano. Nel suo caso imparare l’economia dalla letteratura non significa prendere un libro di narrativa e analizzarne le fattezze economiche. No, l’insegnamento che ne traiamo deriva dal metodo. Nell’ultimo capitolo de Las Venas Abiertas de America Latina, aggiunto nel 1977, Galeano scrive: “[q]uesto libro era stato scritto per conversare con la gente. Un autore non specializzato si rivolgeva a un pubblico non specializzato,” e che “[l]a risposta più stimolante non è venuta dalle pagine letterarie dei giornali, ma da alcuni episodi reali successi per strada.” Letto così, sembrerebbe una ricetta per un pasticcio demagogico, in cui un non addetto ai lavori tenta di disinformare i non informati, allettandoli con aneddoti quotidiani che dovrebbero avere poca rilevanza nella scienza economica. Tuttavia, Galeano non si ferma qui: riprende i libri di storia per spiegare le azioni dei conquistadores del Cinquecento; Adam Smith per narrare l’avventura pseudo-coloniale dell’Inghilterra nell’America del Sud e Karl Marx per analizzare i fenomeni distruttori della libera concorrenza sul mercato mondiale; Andre Gunder Frank per sbrogliare il sottosviluppo latinoamericano; infine, Galeano cita anche innumerevoli studi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dell’OMC sulla situazione economica degli anni Sessanta.

 

Mi è più volte venuto da pensare come oggi la lettura di questo libro possa sembrare anacronistica: il fallito dominio economico iberico nel XVI e XVII secolo, passato nelle mani degli inglesi nel XVIII e XIX secolo, ha infine attraversato l’Atlantico, per instaurarsi a Washington. Ma certamente – noteremo – l’impero egemonico degli Stati Uniti nel 1970 e nel 2015 è differente. Obama si permetterebbe mai di deporre un Evo Morales o un Nicolás Maduro per instaurare una dittatura più filoamericana così come è successo con Allende e Pinochet? La risposta sarà sicuramente, a chiunque lo si chieda, negativa: da ormai quarant’anni l’egemonia economia nordamericana non passa più da Pennsylvania Avenue. Al contrario, agisce attraverso canali secondari che per secoli hanno tenuto le redini non solo in America Latina, ma in tante altre parti del mondo: in Indonesia, in Guinea e Sud Africa, in Persia e in India, ma anche nel Mediterraneo – le imprese multinazionali. È per questo, dice Galeano, che i paesi dell’America del Sud dovrebbero cominciare a riportare le risorse ai propri cittadini, sviluppare la propria industria, e consumare i propri prodotti. Fa certamente pensare leggere come già nell’Ottocento, in Argentina, la gente vestisse cotone e pelli inglesi, consumasse prodotti inglesi, e investisse con capitali inglesi – il tutto a un prezzo più basso rispetto alla produzione locale. Nonostante ciò, la strada nazionalistica (o meglio, delle nazionalizzazioni) auspicata da Galeano non può essere la strada giusta. Non lo è stata negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che hanno visto fallire clamorosamente la strategia dell’industrializzazione sostitutiva delle importazioni (ISI), né lo sarà oggi attraverso il MERCOSUR, l’ALADI, la CAN, o l’UNASUR.

 

Infine, un’ultima nota. Pensare al sottosviluppo richiama alla mente una serie di nomi, provenienti dalle più diverse professioni sociali. Gli economisti Amartya Sen e Jeffrey Sachs; i filosofi Thomas Pogge e Martha Nussbaum; sociologi come Immanuel Wallerstein; scienzati politici dal calibro di Robert W. Cox; ma anche nomi del (recente) passato: il già citato Andre Gunder Frank, Karl Polanyi, Raúl Prebisch e Michel Foucault per dirne alcuni. Tutti questi vedono il mondo attraverso lenti differenti, pur giungendo a conclusioni non troppo dissimili. Perché, allora, non vedere il mondo attraverso nuove lenti? Perché non affidarsi a nuovi Galeano del terzo millennio, che dal basso dei marciapiedi, dove ascoltano le storie e le annotano sui loro taccuini, ripercorrono la strada, verso l’alto, nei grattacieli delle grandi imprese multinazionali, nei palazzi governativi, nelle università e nei centri di ricerca? Perché non narrare la travagliata storia del debito argentino o l’iperinflazione venezuelana con nuovi strumenti? Il risultato forse non cambierà, ma è indubbio che ci saranno nuove lezioni da trarre che le lenti di una sola disciplina non riescono a identificare. Magari dovremmo cambiare rotta e appellarci a Popper, secondo il quale le discipline non esistono e le nostre congetture non sono altro che tentativi di risoluzioni di problemi, qualunque sia la loro natura. O magari la storia della dipendenza latinoamericana era segnata in partenza, già dall’Ottocento, quando l’eroe della liberazione Simón Bolívar esclamò: “Non saremo mai felici, mai!”