Nel libro Nudge! La spinta gentile Richard H. Thaler (School of Business, Chicago University) e Cass R. Sunstein (Harvard Law School) sostengono l’idea di paternalismo libertario. Questo concetto prevede la salvaguardia della libertà degli individui di fare come credono, di “essere liberi di scegliere” parafrasando Milton Friedman, ma con l’aiuto dei cosiddetti architetti delle scelte, ovvero di coloro che sono in grado di influenzare le scelte degli individui. Il concetto di paternalismo libertario prevede quindi l’influenza degli architetti delle scelte mirata però non al loro profitto, ma a favore del miglioramento delle vite degli individui. Thaler e Sunstein si considerano paternalisti in quanto ritengono lecito “influenzare i comportamenti degli individui al fine di rendere le loro vite più lunghe, sane e migliori”.

 

Gli autori partono dall’individuazione dei difetti degli esseri umani, che si distinguono dagli Econi (homo oeconomicus), sono la razionalità limitata, l’incapacità di autocontrollo di fronte alla tentazione, e le influenze sociali, spesso irrealistiche.In questo brano intendo riprendere la teoria dei pungoli contenuti in Nudge! per fornirne un esempio tratto da una mia esperienza reale che trovo originale e divertente, e quindi d’aiuto per comprendere la natura del paternalismo libertario. Ho chiamato questo esempio, con un po’ di ironia, il sistema del sushi sudafricano.

 

IL SISTEMA DEL SUSHI SUDAFRICANO.

 

Mi trovavo con la mia famiglia in vacanza sulle coste del Sudafrica quando decidemmo di andare a mangiare del sushi in un ristorante che si affacciava sul mare. Questa introduzione può far apparire il contesto di un certo lusso, ma in realtà il Sudafrica è un paese relativamente economico, e la località in cui ci trovavamo non era tra le più rinomate. Il ristorante di sushi invece aveva un bell’aspetto. Era molto elegante e ben curato, anche se con pochi clienti vista la stagione (era luglio quindi in Sudafrica pieno inverno!).

 

Al centro del salone c’era un grande bancone ovale presso cui i clienti potevano sedersi. Il bancone aveva un buco in mezzo, dove al suo interno si destreggiavano due giapponesi che tra riso, alghe e salmoni, preparavano il sushi sotto gli occhi ammirati dei clienti. I cuochi, dopo aver preparato il sushi, lo mettevano in dei piattini di plastica colorati che poi appoggiavano su un tapis roulant che percorreva il bancone facendo girare il sushi sotto i nasi di tutti i clienti. A questi spettava la scelta di prenderselo o lasciarlo girare finché non se lo fosse preso qualcun altro.

 

Ci sedemmo tutti lì e osservammo il cartellone affianco ai due cuochi di sushi.
Il cartellone rappresentava un menu completamente originale: non erano elencate le diverse pietanze, ma i colori dei piattini su cui esse giravano con i rispettivi prezzi. Ecco un’esemplificazione del menu:

 

sushi_zaf

 

Ad ogni piattino quindi corrispondeva un prezzo diverso, e in ognuno di essi gli chef mettevano una certa gamma di sushi. Un sushi probabilmente più povero veniva posto sul piattino azzurro, mentre un sushi più prelibato andava sul piattino nero o giallo. Alla fine del pasto il cliente, che aveva accumulato i piattini sulla sua porzione di bancone, faceva contare i piattini al cameriere che gli portava il conto basandosi sul calcolo dei colori.

 

In genere nel piattino azzurro, il più economico, giravano per lo più verdure o contorni, quelli che forse noi occidentali considereremmo antipasti. Il piatto rosso aveva una buona gamma di sushi di diversi tipi, e così anche il piatto nero. Il piatto giallo non sorprendeva solo per quanto riguarda la prelibatezza del pesce, ma spesso anche dal punto di vista visivo le pietanze sembravano più studiate e raffinate. Sul piattino giallo inoltre giravano anche due o tre tipi di dolci giapponesi, un dessert per così dire!

 

LA LIBERTÀ APPARENTE.

 

Questo assetto, per tornare a Nudge!, ci fa pensare ad una situazione di libertà. Noi siamo completamente liberi di operare le nostre scelte, come ci pare e piace. I piattini ci passano davanti, conosciamo il prezzo di quel cibo e se ci pare possiamo prenderlo. Se non ci piace, la volta dopo non prenderemo più quel tipo di sushi, mentre se ci è piaciuto avremo occasione di ri-gustarcelo.

 

La nostra libertà trova un limite nei prezzi, ma questo è un limite che non possiamo scavalcare poiché la differenza di prezzo tra le pietanze deriva dalla maggiore accuratezza nella preparazione e/o soprattutto dalla maggiore prelibatezza del sushi (che può essere poi ricondotta al principio economico di scarsità delle risorse). Inoltre, se noi disponiamo di un budget limitato, facendo un semplice e veloce calcolo, possiamo elaborare le diverse combinazioni di cui possiamo disporre e scegliere tra esse, poiché il prezzo dei diversi piattini è esposto. Questa libertà non sarebbe invece garantita da un menu con un prezzo fisso (tot portate di sushi a 10 euro) come accade in diversi ristoranti giapponesi che propongono diverse gamme di menu precostituiti.

 

Insomma, tutto nel modello del sushi sudafricano sembra porsi a favore della nostra libertà di scelta. Ma non è così.

 

LA DISTORSIONE DELLA LIBERTÀ E L’ARCHITETTURA DELLE SCELTE.

 

Per dimostrare come il sistema del sushi sudafricano manchi di effettiva libertà partirò proprio dalla fine della cena. Ormai era più di un’ora che eravamo seduti al bancone a divertirci nell’acchiappare i piattini di sushi che più ci piacevano, e cominciavamo, uno dopo l’altro, a dichiararci sazi. Ormai, a parte un paio di coppie, eravamo rimasti solo noi, e nel corso della serata non c’erano stati altri clienti.

 

Avevamo appena finito di contarci a vicenda i piattini, quando tornò uno dei due chef che si era assentato per qualche minuto. Con sé portava un vassoio con una serie di piattini gialli completamente diversi dai precedenti: contenevano calamari fritti. E qui cominciò il dilemma.

 

I calamari erano qualcosa che nessuno di noi aveva ancora provato (essendo in cinque e tutti in famiglia, non avevamo problemi a prendere piatti diversi e condividerli per poter assaggiare tutti i tipi di sushi che giravano) e ci dividemmo tra chi era sazio e quindi riteneva fosse meglio finire lì la cena, e chi insisteva nel prendere almeno due piattini e dividerli tra noi cinque, tanto per provare, visto che non avremmo avuto altre occasioni!

 

Alla fine, ovviamente, vinsero i secondi, probabilmente proprio per quella che i due autori chiamano influenza sociale (facendo tra l’altro proprio un esempio su come chi è circondato da conoscenti obesi è più a rischio di obesità rispetto a chi non ne ha, per estremizzare).

 

Ma il vero punto di snodo della questione, che ci fa sembrare il sistema sushi molto meno libertario di quanto sembri, è che i due chef erano architetti delle scelte. Due architetti che però, logicamente, guardavano al profitto del loro ristorante più che alla buona salute di un gruppetto di turisti europei!

 

Non era forse una distorsione delle nostre scelte presentare i calamari proprio quando ormai sapevano che non avremmo più preso nessun altro piatto? La mia non è una teoria del complotto, anche perché è più probabile che si siano concentrati su di noi più che sulle altre due coppie, che costituivamo almeno l’80% della clientela di quella sera in termini di consumazioni.

 

Se i calamari fossero stati presentati nel bel mezzo della cena, li avremmo presi ugualmente, ma più tardi con molta probabilità avremmo rinunciato ad altri tipi di sushi che giravano attorno alla tavola. Il sushi ormai lo conoscevamo bene, ne avevamo mangiato fino a quel momento!

 

Quindi un sistema che oltre che originale, appariva completamente libertario, in realtà non era altro che frutto dell’architettonica progettazione di poche persone per aumentare il loro profitto, facendo leva sulla tentazione, sempre pronta a minare l’autocontrollo dei clienti. Proprio ciò che sembrava il massimo simbolo di libertà di scelta, cioè quel tapis roulant da cui si poteva attingere a seconda del proprio gusto, ora era emblema di tentazione. Tentazione che, come sappiamo, mina molto la nostra libertà effettiva.

 

Ho già parlato della potenza delle influenze sociali, mentre il problema che non ho ancora citato, quello della razionalità limitata, non è da escludersi.

 

Innanzitutto è necessario considerare l’incapacità di effettuare calcoli proprio perché è impossibile formare aspettative corrette. Non nascondo che qualche cliente abbia fatto richiesta specifica ai due cuochi di qualche sushi che aveva gradito particolarmente, però tali richieste, che venivano accontentate, erano sparute. Inoltre esse potevano in realtà essere d’aiuto ai due cuochi, perché non affrontavano il rischio possibile che la pietanza preparata girasse a vuoto senza mai essere presa. Probabilmente esiste un’infinità di problemi psicologici che si porrebbero di fronte a queste scelte minando la nostra libertà e che non ho citato. Ad esempio, ho avuto l’impressione che quando uno stesso piatto che non mi aveva tentato al primo giro mi ripassava davanti due o tre volte, iniziava a venirmi voglia di provarlo. Il punto che in realtà bisogna considerare riguardo alla razionalità limitata è che dal punto di vista economico sembra impossibile calcolare le diverse aspettative sui piatti che ci passeranno davanti poiché non conosciamo la strategia degli chef e il nostro calcolo si limita solo sui piattini “sommersi”, cioè che abbiamo già scelto. Se già troviamo difficoltà dal punto di vista economico basti pensare che alla fredda matematica dobbiamo affiancare anche il problema della varietà di sapori che possono stimolare le nostre papille gustative . Elaborare aspettative anche su questo aspetto ci apre davanti un universo ancora più immenso e forse inesplorabile.

 

LA SOLUZIONE PATERNALISTA-LIBERTARIA.

 

Il mio ragionamento conseguente, in conclusione, riguarda proprio come potrebbe attuarsi una strategia di paternalismo libertario sul sistema sushi sudafricano.

 

Affianco al sistema liberatorio del sushi sudafricano avevo citato quello dei menu precostituiti, molto frequenti nei ristoranti di sushi in Italia. I menu precostituiti rappresentano un’opzione di default, che si pone come soluzione ideale per i neofiti di questo cibo come possono essere gli italiani. Siamo un popolo molto attaccato alla propria tradizione culinaria secolare, quindi è già difficile che ci inoltriamo ad esplorare un orizzonte lontano come quello giapponese. Una volta che qualcuno di noi lo fa, come minimo dev’essere guidato. E questo compito è svolto alla perfezione dai menu precostituiti.

 

Quello che accade, però, è che nella gran parte dei casi questi menu sono privi di indicazioni utili, ovvero portano nomi che non dicono niente, come “Menu A e Menu B”, o “Menu da 10 euro e menu da 15 euro”. Questa spersonalizzazione rende le ipotesi di default una giungla in cui il consumatore si addentra a casaccio, privo di una bussola che lo aiuti ad orientarsi.

 

Se vogliamo trasporre gli insegnamenti di Thaler e Sunstein in questo gioco mentale dovremmo pensare a una soluzione diversa. Nel libro spesso i due autori propongono un’opzione di default che possa compiacere il cliente standard. Ma il cliente, se si trovasse fin da subito di fronte a questa soluzione, la sceglierebbe nella maggior parte dei casi. Prima quindi è necessario porlo di fronte alla varianti, per farlo entrare nell’idea che la sua prima scelta riguarda quali varianti preferisce, mentre la seconda sarà eventualmente se preferisce avere delle varianti o meno (e quindi se scegliere il menu personalizzato o il menu di default).

 

Per gli inesperti quindi le varianti dovrebbero contenere riferimenti diretti alle esigenze che loro conoscono. Ad esempio il classico “Menu Baby” per i più piccoli. Chiamare un menu “Menu da 10 euro” porterebbe il cliente ad anteporre la scelta economica a quella gastronomica, deviando la vera ragione per  cui si trova lì. Chiamare il menu “Menu 1″ renderebbe possibile una vera scelta solo per gli esperti del settore.

 

Sarebbe interessante e divertente la creazione di un menu basato su una “scala Richter” dei brontolii del proprio stomaco: “quanta fame hai da 1 a 10?”. 5 punti di scala Richter, menu 5. Forse però questa scelta non sarebbe molto gradita dai giapponesi puristi che ritengono il sushi un’arte fatta per essere gustata e non tanto per sfamare.

 

Insomma, le soluzioni possono essere molte e creative, ma basate sul modello dei menu personalizzati ma precostituiti e che prevedano una soluzione di default che disponga della più variegata gamma di sushi al suo interno per i neofiti indecisi, in modo da renderli più consci delle proprie preferenze la volta dopo.

 

Nicolò Fraccaroli (@NicFraccaroli)

 

LUISS Guido Carli