È ormai ampiamente riconosciuto, anche in ambienti mainstream, che le istituzioni di deposito (le banche) non “prestano” le riserve (base money) che la banca centrale fornisce loro, accrescendo la quantità di moneta privata (broad money) in circolazione attraverso il cosiddetto “moltiplicatore monetario”, ma molto più semplicemente creano depositi, e quindi moneta, nel momento in cui concedono un prestito, attraverso un semplice allargamento del loro stato patrimoniale: cresce l’attivo, e cresce il passivo in egual misura. Solo in un secondo momento esse si preoccupano di ottenere dalla banca centrale le riserve necessarie per coprire i requisiti minimi imposti dal regolatore o i requisiti prudenziali che si autoimpongono a seconda della loro propensione al rischio.

 

Tutto questo è ben documentato da un paper di Richard Werner (2014), che conduce un semplice esperimento, chiedendo a un banchiere di concedergli un prestito e facendogli testimoniare che la banca, per farlo, non ha dovuto richiedere preventivamente riserve né ottenere preventivamente depositi.

 

Tuttavia, si può obiettare che sebbene questo ribaltamento della catena causale nella creazione di moneta sia vero, non siamo di fronte a una “rivoluzione copernicana”: cioè, non è importante se la banca ottiene prima riserve e poi le presta, creando broad money nel processo, oppure se prima crea broad money e poi ottiene dalla banca centrale le riserve necessarie per coprirsi dal rischio che i depositanti vogliano ritirare denaro contante; alla fin fine, si ha in entrambi i casi lo stesso ammontare di broad e base money. Questo è vero, ma le implicazioni di questo cambio di prospettiva si hanno anche in un altro ambito, ossia la regolamentazione bancaria.

 

Per esempio, sempre Werner afferma che, se si smette di considerare le banche come semplici intermediari finanziari (cioè entità che collegano i risparmiatori, in surplus di capitale, con le aziende, in deficit di capitale), una delle principali regolamentazioni a cui le banche sono sottoposte, ossia i requisiti di adeguatezza patrimoniale, diventa superflua. Infatti, ragiona l’economista tedesco, se le banche possono creare credito più o meno a piacere (specialmente in questo periodo, dove il vincolo ex-post di dover recuperare riserve dalla banca centrale è praticamente scomparso: in molti paesi il coefficiente di riserva obbligatorio è 0), possono concedere credito a chi poi comprerà le loro azioni, di fatto aumentandosi da sole il capitale. Ad oggi, perlomeno in Italia, questa pratica è vietata nella sua forma più diretta, ossia concedere prestiti vincolati all’acquisizione di azioni della banca prestatrice (il cosiddetto “prestito baciato”, che è alla base dello scandalo della Popolare di Vicenza e di altre banche), ma non è concettualmente difficile immaginarsi uno schema più complesso che superi facilmente questo limite legale: la banca A concede un prestito al cliente B, che compra le azioni del veicolo C, che usa i fondi per comprare le azioni del veicolo D, che acquista infine le azioni della banca A. Quindi, perlomeno in aggregato, per il sistema bancario non è un problema soddisfare i requisiti patrimoniali. Quindi è perfettamente possibile avere cicli finanziari esplosivi (boom and bust) anche in presenza di requisiti patrimoniali stringenti; d’altronde, i regolamenti di Basilea, che si occupano esattamente di questo, erano in vigore da ben prima della crisi finanziaria del 2008.

 

Una volta appurato che il sistema bancario nel suo complesso ha molto più potere, in termini economici, di quanto comunemente immaginato, è una buona idea chiedersi come fare a imbrigliare questa potenza, per evitare che contribuisca, attraverso periodi di easy credit seguiti da periodi di credit crunch, ai sopracitati disastrosi cicli finanziari che portano a un’allocazione socialmente inefficiente degli investimenti, come sosteneva John Maynard Keynes nella sua Teoria Generale (cap. 12), e a bolle speculative il cui scoppio colpisce principalmente persone innocenti, come piccole e medie imprese sostanzialmente solide che diventano illiquide e poi insolventi dalla sera alla mattina. Un’idea interessante, avanzata dall’Institute for Innovation and Public Purpose della UCL, è quella di indirizzare il credito in modo ottimale (credit guidance): si tratterebbe di incentivare, attraverso opportuni strumenti legislativi, le creazione di credito per finanziare investimenti produttivi, in capitale fisso o infrastrutture, e simmetricamente disincentivare la creazione di credito indirizzata a investimenti speculativi, come l’acquisizione di strumenti finanziari, che non vanno ad accrescere il PIL di una nazione ma solo la leva complessiva del suo sistema economico (debito/PIL). Questo tipo di regolamentazione è stata applicata in passato da quasi tutte le economie occidentali avanzate e da molte economie asiatiche, i cui risultati in ambito di sviluppo sono indisputabili. L’evidenza empirica, quindi, sembra essere positiva, anche se è necessario approfondire lo studio in questo senso.

 

Gli autori del paper elencano diversi modalità pratiche con cui la credit guidance è stata implementata in passato (e ne provano l’efficacia nell’aumentare la quota di credito destinata al settore reale rispetto a quello finanziario, tramite un’analisi econometrica): in alcuni casi il settore pubblico indirizzava il credito verso determinati settori ritenuti d’interesse strategico o meritevoli di sviluppo, per esempio imponendo l’obbligo al settore bancario di concedere loro almeno un determinato ammontare di prestiti; in altri impediva eccessi speculativi e bolle finanziarie, per esempio imponendo controlli sugli influssi di capitale estero non diretto a investimenti produttivi (questa misura sarebbe tornata utile alla Spagna e all’Irlanda, le cui bolle immobiliari pre-2008 erano state finanziate principalmente da capitale tedesco).

 

La (giustificata) critica che si può muovere a questi strumenti è che in passato essi sono stati utilizzati per fini personalistici ed elettorali, per indirizzare il credito agli amici degli amici. Sarebbe quindi bene avere uno strumento di politica del credito più trasparente e meno arbitrario. Si potrebbe per esempio pensare di suddividere il credito in tre classi, che potremmo denominare classe A (credito verso imprese non finanziarie per investimenti in capitale fisso o in ricerca e sviluppo, credito per la costruzione di nuove abitazioni), classe B (credito al consumo e credito per l’acquisto di immobili esistenti, ossia credito comunque diretto all’economia reale ma suscettibile di creare problemi di indebitamento di massa o bolle immobiliari) e classe C (credito per l’acquisto di asset finanziari già esistenti). A quel punto si tratterebbe di usare la leva fiscale per premiare la classe A (per esempio detassando gli utili che le banche realizzano grazie a questi presti), trattare neutralmente la classe B e disincentivare la classe C.

 

Il sistema bancario, nelle moderne economie occidentali, anche in quelle tradizionalmente basate sui mercati finanziari, ha un’importanza vitale, perché custodisce il potere di creare, ad oggi quasi senza limiti potenziali, la moneta che utilizziamo nelle nostre vite di tutti i giorni (la moneta cartacea rappresenta una frazione in diminuzione dell’aggregato monetario M1, ed è decisamente scomoda per transazioni importanti). È essenziale capire come indirizzare questo potere verso fini socialmente efficienti.

 

Fonti

https://www.money.it/Prestiti-baciati-cosa-sono-truffa-banche

https://fred.stlouisfed.org/graph/?id=M1,CURRENCY,

https://www.nbp.pl/badania/seminaria/28ix2018-1.pdf

https://evonomics.com/debunking-deregulation-bank-credit-guidance-and-productive-investment/

https://www.economicsnetwork.ac.uk/archive/starkey_banking#:~:text=Credit%20creation%20theory%20of%20banking%20proposes%20that%20individual%20banks%20can,been%20provided%20to%20the%20bank.&text=A%20bank’s%20ability%20to%20create,of%20a%20range%20of%20factors.