Il 28 ottobre è comparso sul Guardian un articolo di Aditya Chakrabortty molto critico verso i cosiddetti economisti mainstream, accusati di essere tra i principali responsabili del radicamento delle elité all’interno della società moderna. Il punto centrale dell’articolo è che, nella Gran Bretagna del Post-Crash le élite, che non hanno impedito l’avvento della crisi stanno mantenendo comunque il potere, pur mancando della credibilità per esercitarlo.

 

In questo scenario i sostenitori della Grande Moderazione, “armati di PhD”, avrebbero dovuto essere screditati ampiamente dopo il crash economico. Ma dopotutto, il cambiamento più significativo non è stato altro che un documentario di Charles Ferguson che mostrava come le menti più brillanti delle università americane fossero stati pagati dalla “Big Finance” per pubblicare ricerche che supportassero i loro stessi finanziatori. E per quanto riguarda i principali corsi di laurea in economia? Sono rimasti gli stessi per un semplice motivo: gli alti sacerdoti dell’economia rifiutano di riconoscere che il mondo è cambiato.

L’articolo non dimentica, seppur in nota critica, i “colleghi” della Post-Crash Economics Society di Manchester e la loro petizione per la creazione di un syllabus che comprenda le altre visioni del mondo economico, all’infuori di quella basata su insiemi di acritici problemi algebrici. Questo significa tornare a Smith, Malthus e Marx?- chiede il columnist del quotidiano britannico ai ragazzi. “Esattamente”. Ma perché quindi ignorare la teoria della distruzione creatrice [1] di Schumpeter? “Beh, a lui si farà un cenno.”

 

Non è certo tutta colpa dei docenti, che si trovano 400 studenti in un’aula, condizione non certo adatta ad andare un attimo fuori dai confini del programma. Però bisogna tenere conto principalmente del risultato finale: gli studenti di economia escono dall’aula dell’esame con la stessa identica cassetta degli attrezzi di chi cinque anni fa ci ha portati a questo sfacelo.

 

L’economia dovrebbe quindi essere una magpie discipline. Una disciplina da gazze ladre, letteralmente, il che vuol dire che dovrebbe “rubare”, attingere, dalle diverse discipline quali la filosofia, la storia e la scienza politica. Negli anni ’70 la facoltà di economia di Cambridge vantava leggende quali Nicky Kaldor e Joan Robinson. Come scrive Tony Lawson, all’epoca “c’erano grandi dibattiti e gli studenti attingevano alla politica, alla storia del pensiero economico… ma ora nulla. Nessun dibattito, nessuna contaminazione del pensiero politico o della storia del pensiero economico all’interno dell’economia. I corsi sono quasi esclusivamente fatti di matematica”.

 

Nicolò Fraccaroli  (@NicFraccaroli)

 

Luiss Guido Carli, Roma


[1] La teoria della distruzione creatrice si inserisce nella teoria delle innovazioni, sempre di Schumpeter. Le innovazioni, concentrate in alcuni periodi di tempo, e non distribuite omogeneamente, portano a una forte espansione economica a cui segue una pesante recessione per tornare infine ad un equilibrio che però è mutato rispetto al precedente. Le fasi di trasformazione dovute alle innovazioni sono dette di “distruzione creatrice”, a cause del processo selettivo che l’innovazione comporta tra le aziende.