La lezione del maestro di Draghi

Nel 1970 un giovane e già promettente Mario Draghi conseguiva la laurea in Economia e Commercio all’ Università La Sapienza di Roma. Curiosamente, il lavoro che gli valse la lode consisteva in una decisa critica alla proposta dell’allora primo ministro lussemburghese Pierre Werner di dare vita ad un’ unione monetaria europea, generando un intrigante paradosso rispetto alla rappresentazione di titanico difensore dell’Euro – incarnata dal celebre “Whatever it takes”- alla quale siamo abituati associare Mario Draghi.

Il relatore della tesi era il celebre economista keynesiano Federico Caffè, il cui contributo accademico ed intellettuale merita di essere approfondito in questa fase storica caratterizzata da un intenso dibattito sulla validità del pensiero economico neoclassico e sul peso che esso debba continuare ad avere sulle politiche della ripresa post pandemica. Se aggiungiamo, poi, l’analogia storica data dalla partecipazione attiva di Caffè nell’esecuzione del Piano Marshall, risulta difficile non guardare con interesse alle idee del primo maestro del premier.

Federico Caffè nasce nel 1914 a Catellammare Adriatico (Pescara) e studia alla facoltà di Economia e Commercio della Sapienza, laureandosi nel 1936. Tra il 1937 e la fine degli anni ’40 Caffè lavora come impiegato di Banca d’Italia prima e, dopo la liberazione, come consulente dei governi di Bonomi e Parri.

L’attività pubblica di Caffè comprende, a cavallo tra anni ’40 e ’50, la partecipazione a numerosi negoziati con la Banca Mondiale e all’esecuzione del Piano Marshall, attraverso la consulenza per il Servizio Studi della Banca d’Italia. Caffè sottolineò, in seguito, come quel momento storico dall’ immenso potenziale riformatore costituì piuttosto un’occasione perduta, nella quale le istanze liberiste prevalsero. Nel 1959, Caffè diventa professore ordinario di Politica Economica e Finanziaria alla Sapienza, dove resterà fino alla misteriosa scomparsa nel 1987.

Il pensiero economico di Federico Caffè si colloca nella vasta area del keynesianesimo postbellico, largamente diffuso negli atenei italiani ed europei del tempo. Ispirato dagli economisti di  Cambridge a cavallo fra le due guerre e dal pensiero interdisciplinare di autori della scuola nordica come Gunnar Myrdal e Jan Tinbergen, Caffè concepisce l’economia come uno strumento di guida all’azione del policymaker volta all’accrescimento del benessere collettivo. Il suo approccio alla scienza economica, che emerge brillantemente nel saggio “Lezioni di politica economica” (1978), è particolarmente legato alla componente etica e ai risvolti pratici della teoria economica, motivo per cui Caffè viene spesso ricordato come un “economista-umanista”. Nessuna teoria in campo economico, infatti, è considerata capace di sfuggire a giudizi di valore di natura etica e cognitiva, anche quando essi non vengono esplicitamente delineati, nascondendoli dietro un’apparente neutralità scientista.

La critica all’impianto teorico neoclassico di Caffè non entra tanto nel merito delle ipotesi o della coerenza interna ma si sofferma sulla mancanza di aderenza alla realtà. Tale posizione porterà Caffè a non condividere le teorie dell’economista americano Ronald Coase, opponendo all’idea di poter sempre esprimere le esternalità di mercato attraverso il metro monetario, l’osservazione che molte perdite sociali semplicemente non siano quantificabili. Lo scetticismo verso l’eccessivo utilizzo della matematica nell’economia politica lo portano anche ad avere una posizione critica perfino verso l’impianto teorico keynesiano di Sraffa, la cui astrazione risulta distante dalla realtà contingente della politica economica. 

Come Keynes, Caffè vede nello Stato il soggetto economico fondamentale per il raggiungimento della cosiddetta “economia del benessere”: non è concepibile un discorso sul funzionamento del mercato che non dipenda innanzitutto dalle istituzioni che ne stabiliscono le regole.  L’intervento statale deve essere volto non solo a stabilire un certo grado di regolamentazione al libero mercato, ma anche al dare una determinata struttura il mercato stesso. Pertanto l’intervento pubblico non è da considerarsi dannoso o distorsivo nei confronti delle leggi del mercato, che non è altro che una costruzione umana. Caffè sottolinea a più riprese la distanza che intercorre tra il mercato ideale descritto dai manuali e quello reale, che tende all’oligopolio, dove le imprese non si adattano passivamente ad un dato contesto di mercato, ma si impegnano in maniera sistematica per modificarne la struttura. L’economista pescarese non ripiega, però, su posizioni stataliste e non deifica lo Stato, la cui azione riformatrice può convivere con un’economia di mercato.

La legittimazione all’azione riformatrice della mano pubblica emerge inevitabilmente dall’inadeguatezza del movente del profitto, che orienta la contabilità privata delle imprese, ma non può far fronte a costi sociali quali la disoccupazione, gli infortuni sul lavoro e l’inquinamento. Di fronte all’incapacità del mercato di garantire condizioni ottimali sia dal lato dell’offerta che della domanda, la mano pubblica deve farsi carico di garantire la piena e buona occupazione, la stabilità dei prezzi, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti ed un soddisfacente tasso di sviluppo.

Lo Stato sociale non può che essere lo strumento centrale ed imprescindibile della politica economica, sul quale Caffè riassume le sue considerazioni nell’emblematico “In difesa del Welfare State” (1985), pubblicato in un momento storico in cui le istanze neoliberiste iniziavano a dominare il dibattito culturale, politico ed economico. Caffè sottolinea come ogni riforma debba scontrarsi con la lotta di retroguardia escogitata da coloro che hanno interessi al mantenimento dello status quo, e che tendono a respingere istanze redistribuitive, motivo per cui un intervento consapevole dei poteri pubblici è necessario al fine di rendere l’azione riformatrice tanto equa quanto praticabile. Il welfare deve sempre avere come obiettivo l’equità, intesa come elargizione di diritti (come quello allo studio o ad un lavoro dignitoso) che concretizzino la parità dei punti di partenza, senza perciò esaurirsi nella concessione di supporto economico fine a se stesso. 

Orientato su posizioni politiche socialdemocratiche e liberal-socialiste, Caffè ci ha lasciato analisi profonde e quantomai attuali sulla figura del riformista, sintetizzate nel celebre “La solitudine del riformista”, pubblicato sul Manifesto nel 1982. Il riformista opera nella storia, ma non se ne considera “né l’apologeta né il becchino”, poiché egli è interessato al miglioramento concreto e realizzabile della realtà sociale in cui vive. Il suo preferire “il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del «sistema»” attira inevitabilmente sul riformista la derisione sia di chi lo considera un ostacolo al funzionamento del libero mercato, sia di chi lo accusa di essere un “tappabuchi” di un sistema talmente compromesso da meritare soltanto la distruzione. Da qui il limbo di solitudine del riformista, destinato a vedere costantemente stracciata la tela che egli tesse. Nonostante ciò, lo sforzo intellettuale non è da considerarsi inutile poiché, come sosteneva Keynes, sebbene gli interessi costituiti sembrino avere un potere di molto superiore alla progressive estensione delle idee, “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male».

Quale insegnamento del professor Federico Caffè può tornare utile al neonato governo tecnico? Proprio il presidente Mario Draghi nel 2014, in occasione del centenario della nascita dell’economista abruzzese, ne ha ricordato la concezione di politica economica nella sua definizione più alta: “Conoscenza della realtà: istituzionale, sociale, comportamentale; capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali, o anche la razionalità economica, quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità; perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per una accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze”.


Fonti

https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-caffe_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/

http://economiaediritto.unimc.it/it/ricerca/quaderni/QDed782014.pdf

http://economiaediritto.unimc.it/it/ricerca/quaderni/QDed752014.pdf

https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141112.en.html