Una definizione di Working Class: è ancora valida?

«La classe – sosteneva E. P. Thompson nel 1963 – prende forma quando alcuni individui, a seguito delle esperienze comuni (ereditate o condivise), sentono e articolano l’identità dei propri interessi sia nel rapporto reciproco, sia in contrapposizione ad altri individui con interessi diversi (e di solito opposti) ai propri».[1] Per lo storico inglese la Working class era, da un lato, il risultato di un’esperienza connessa ad alcuni aspetti oggettivi della società, ossia quelli legati alla struttura socio-economica, e, dall’altro lato, al reciproco riconoscimento di caratteri comuni, che potremmo definire “soggettivi”, come la cultura, la mentalità, l’azione collettiva.

Ciò che è stata qui brevemente riportata è una delle più famose e onnicomprensive definizioni di classe, e indirettamente di classe lavoratrice, offerta dalla sociologia e dalla storia del lavoro nel corso del Novecento. Ma – ed è ciò che qui e nei successivi articoli ci chiederemo – è ancora attuale questa teorizzazione? Si può ancora parlare di classe? Se sì, cos’è la Working class oggi? Il quesito non è fine a se stesso e la risposta è tutt’altro che banale. Nonostante il concetto di classe abbia ricoperto un ruolo centrale nel discorso pubblico e scientifico del Novecento e oggi il loro impiego possa risultare facilmente anacronistico, negli ultimi decenni la Global Labour History ha dimostrato come tali categorie possano ancora arricchire le ricerche delle principali scienze sociali.

Un decennio di crisi per la Storia del lavoro

Mentre negli anni Sessanta e Settanta la storia del lavoro godeva di un’indiscussa centralità, dovuta al peso politico e culturale della classe operaia all’interno del sistema produttivo fordista, negli anni Novanta «tra gli storici del lavoro europei e statunitensi emerse la consapevolezza» della crisi che stava attraversando la propria disciplina, a causa dei profondi cambiamenti economici, culturali e geopolitici in corso, i quali «richiedevano uno sforzo di ripensamento teorico capace di rilanciarla».[2] Infatti, da un lato, il repentino collasso del socialismo reale e, dall’altro, il lento passaggio a un sistema post-fordista produssero due effetti che intaccarono le allora fondamenta della disciplina. In primo luogo, il fallimento del comunismo e il revisionismo ideologico del socialismo nel corso degli anni Ottanta fecero «venire meno una parte rilevante del terreno ideologico dal quale emergevano i concetti chiave della storia del lavoro tradizionale»; in secondo luogo, la disciplina stessa si trovò ad analizzare il nuovo assetto economico mondiale con il «dubbio che il suo soggetto centrale», il fattore lavoro e il lavoratore, fosse «svanito o che si fosse trasformato in maniera così radicale da richiedere nuove chiavi di lettura e nuovi concetti», così distanti dai precedenti da innescare e vera e propria crisi metodologica ed epistemologica interna.[3] In altre parole, nei primi anni Duemila sorsero alcune nuove teorizzazioni che rintracciavano nei processi di terziarizzazione e finanziarizzazione dell’economia mondiale, nel graduale smaterializzazione e nella cognitivizzazione della produzione capitalistica il conseguente sfaldamento della classe lavoratrice, o meglio del suo concetto.[4]

La proposta della Global Labour History

A muoversi in direzione contrario è stata, come abbiamo già detto, la Global Labour History, la quale studiando i processi di formazione della classe lavoratrice da una prospettiva transnazionale e persino transcontinentale ha messo in discussione alcuni assiomi della tradizionale storia del lavoro e proposto nuove letture dei processi di produzione, di sviluppo economico e di mercificazione del lavoro, giungendo a fornire innovative definizioni di lavoro e capitalismo.[5] Essenzialmente, tale indirizzo di ricerca rifiuta di cestinare la categoria di working class o di etichettarla come obsoleta, e si pone il problema di cogliere quella molteplicità di forme di lavoro e sfruttamento sorte dallo sfaldamento di quell’unità rintracciata dagli studi novecenteschi, osservando non solamente la realtà occidentale ma allargando lo sguardo all’interno mondo, abbandonando l’eurocentrismo e il nazionalismo metodologico per uno studio su scala planetaria.[6]

Ad oggi l’interesse verso tali questioni sorge principalmente per l’esigenza di rimodulare le categorie interpretative con cui è possibile analizzare l’attuale società, la quale sarà «fluida»[7], ma pur sempre stratificata. Rispondere alle domande poste inizialmente equivale a criticare l’economia politica del lavoro e fornire uno schema interpretativo nuovo, esterno sia all’ortodossia liberal che a quella marxista. Sono domande necessariamente post-marxiste, ma che si possono affrontare a partire dalla comprensione e dalla critica delle categorie del marxismo ortodosso. Chiaramente, la teoria marxista da sola non è sufficiente. Quest’ultima, da un lato, può fornire gli elementi con cui avviare «questo ri-orientamento», ma, dall’altro, «lascia aperte o affronta in modo non approfondito troppe questioni», a causa della sua incompiutezza o dell’evoluzione stessa del capitalismo. Tali lacune devono essere oggi colmate attraverso nuovi studi empirici e l’ausilio di tutte le discipline sociali e umanistiche.[8]

L’importanza del recupero del concetto di classe

Il concetto di classe, nella sua forma deideologizzata, resta oggi importante. Tuttavia, si riscontra facilmente come sia assente dalle analisi mainstream. Anche la narrazione politica degli ultimi decenni ha posto come suo soggetto privilegiato la Middle class, abbracciando il motto per cui: “siamo tutti classe media”. In effetti, la storiografia sociale e politica ha giustamente registrato come nel corso degli anni Ottanta e Novanta sia avvenuta la cosiddetta cetomedizzazione, ossia l’emersione di un sempre più vasto ceto medio legato alle nuove realtà economiche: la piccola e media impresa, il settore dei servizi, il lavoro autonomo. Importante è ricordare come la classe operaia non rimase estranea agli effetti della diffusione del benessere e, di conseguenza, assunse progressivamente quei tratti culturali e di costume che la affrancarono a ciò che fino ad allora era stata la media borghesia. In altre parole, la «promessa di felicità», diffondendosi nell’intera società, permise la ricomposizione di quei poli originariamente contrapposti.[9]

Tale evoluzione, effettivamente riscontrabile in tutti i paesi occidentali, è sufficiente a decretare la fine della Working class?[10] La risposta offerta dalla moderna storia del lavoro è sostanzialmente un no, ma è importante riconoscere come alla base di tale risposta, e quindi di qualunque altra, vi è un’ulteriore domanda, che, non a caso, abbiamo posto inizialmente: cosa si intente per Working class? Nei prossimi articoli cercheremo di presentare le più recenti e varie interpretazioni e ricerche in merito. Qui ci limitiamo ad evidenziare come il concetto di Middle class – la cui effettiva esistenza andrebbe discussa empiricamente – non mostra alcuna efficacia interpretativa in sede di ricerca, e unisce sotto il suo ombrello tutta una serie di forme eterogenee di lavoro, produzione e sfruttamento, con la conseguenza negativa di limitare la capacità comprensiva delle contemporanee strutture economiche e sociali. Al contrario, indagare la tendenza evolutiva delle varie classi – la Working class, la Capitalist class e la Ruling class[11] – fornisce un prezioso ventaglio di categorie con cui è possibile destreggiarsi all’interno di questa eterogeneità, senza perderne la complessità e giungendo ad un’utile teorizzazione.

Alla luce di tali consapevolezze e prospettive, cosa ne consegue in campo metodologico per la storia del lavoro e per l’economia del lavoro? Possiamo sintetizzare il tutto in tre punti. In primo luogo, è necessario formulare delle nuove e solide categorie, fedeli alle osservazioni empiriche riscontrabili sia dal panorama odierno che passato. In secondo luogo, è importante non studiare queste singole categorie nella loro autonomia e individualità, bensì analizzare le relazioni che si strutturano fra di loro. In terzo luogo, si rivela essenziale effettuare tali studi in ottica globale e transnazionale, mantenendo così l’attenzione sulle dinamiche mondiali del capitalismo contemporaneo.[12]


[1] E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, Gollancz, 1963, pp. 8-9.

[2] L. D’Angelo e C. G. De Vito, Il lavoro in una prospettiva globale, in Il lavoro come merce. Capitalismo e mercificazione del lavoro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, p. 7.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; C. Formenti, Felici e sfruttati, Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Milano, Egea, 2011; C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Roma, Manifestolibri, 2006.

[5] Cfr. M. van der Linden, The promise and challanges of Global Labour History, in «International Labor and Working-Class History», 82, 2012, pp. 57-76; M. van der Linden, Global Labor History and ‘the modern world-system’. Thoughts at the Twenty-fifth anniversary of the Fernand Braudel center, in «International Review of Social History», 46 (3), 2001, pp. 423-459; M. van der Linden, The ‘Globalization’ of the labor and working-class history and its consequences, «International Labour and Working-Class History», 65, 2004, pp. 136-156.

[6] Cfr. M. van der Linden, Workers of the World. Essay Toward a Global Labor History, Leiden-Boston, Brill, 2008, p.6.

[7] Cfr. con la copiosa produzione scientifica del sociologo Zygmunt Bauman, in particolare: Modernità liquida, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011.

[8] M. van der Linden, Chi sono i ‘lavoratori di tutto il mondo’? Marx, e oltre, in L. D’Angelo e C. G. De Vito (a cura di), Il lavoro come merce. Capitalismo e mercificazione del lavoro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018, p. 29.

[9] M. Bianchi, La nuova ricchezza, in Il trionfo del privato, Roma-Bari, Editori Laterza, 1980, pp. 49-53.

[10] M. van der Linden (a cura di), The end of labour history?, in International Review of Social History, 38, 1993.

[11] M. Zweig, The Working class Majority, London-Ithaca, Cornell University Press, 2011, pp. 15-53.

[12] M. van der Linden, Workers of the World. Essays toward a Global Labor History, Leiden-Boston, Brill, 2008, pp. 36-37.