Il 17 settembre di vent’anni fa si spegneva uno dei massimi filosofi del XX secolo, Karl Popper.
Epistemologo, logico, filosofo politico, storico, Popper ha incarnato meglio di chiunque altro la figura dello scienziato sociale che riesce a prendere elementi dai più disparati ambiti per tentare di risolvere i problemi che gli si presentavano di fronte. Questo perché, diceva, “non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi”. Nella sua visione le discipline non esistono e i problemi trascendono i confini di qualsiasi materia.

 

La ricerca, per Popper, non ha, né deve avere fine. Non è la certezza che dobbiamo perseguire, ma la verità. E a questa si può giungere solo attraverso la libera discussione critica che ci permette di individuare e sviscerare gli errori e affrontare efficacemente i problemi. L’errore, quindi, non è un peccato, quanto una semplice felix culpa. Per Popper esso fa parte del metodo scientifico del trial-and-error, per cui i problemi vengono risolti attraverso tentativi di spiegazione apportati da nuove teorie sempre più accurate, nate dall’analisi critica delle fallacie presenti nelle versioni precedenti.

 

Eppure la ricerca, per quanto continua, può subire un rallentamento deciso,  in alcuni casi improvviso, quando sedicenti scienziati si dimostrano conservatori e addirittura reazionari. Tali studiosi provvedono a tappare le falle delle loro amate teorie non attraverso congetture e confutazioni che possano lasciare spazio a teorie migliori, bensì attraverso ipotesi ad hoc, indimostrabili e al contempo inconfutabili. Questo atteggiamento non fa altro che perpetuare false credenze e false soluzioni ai problemi umani. L’obiettivo dello scienziato sociale non è la verificazione, ma la falsificazione delle proprie teorie: una teoria è tanto più accurata quanto più essa resiste ai tentativi di falsificazione, e non tanto più i fatti correnti la verificano, poiché nessuno ci dice che fatti futuri non la possano confutare.

 

Ecco la grandezza di Popper, critico ma non scettico, inflessibile ma non cinico; ecco la grandezza di uno scienziato sociale riformista e rivoluzionario. Se la scienza è progresso, lo scienziato, sia esso naturale o sociale, non può permettersi di essere conservatore: la rivoluzione è nel suo animo.

 

Ed ecco, infine, il perché della sua critica alla “scienza normale” di Thomas Kuhn. Lo “scienziato normale”, giudica Popper, è un “professionista non rivoluzionario o, più precisamente, non troppo critico: il cultore di discipline scientifiche che accetta il dogma predominante del suo tempo, che non vuole metterlo in discussione e che accetta una nuova teoria rivoluzionaria solo se quasi tutti gli altri sono pronti ad ammetterla”. Lo scienziato normale è, in altre parole, vittima dell’indottrinamento. Né è escluso che l’indottrinamento cui è stato sottoposto non sia privo di ipotesi ad hoc che ne coprano gli errori.

 

Di là delle sue posizioni politiche e delle critiche di filosofi successivi, quali Feyerabend e lo stesso Kuhn, non si può negare l’enorme importanza del lascito popperiano: è necessario difendere non solo la libertà, ma anche il pluralismo – sia esso teorico, metodologico o disciplinare. I falsi profeti deterministi e verificazionisti, accecati dall’amor proprio (o della propria teoria) confondono le tendenze con le leggi, e la certezza con la verità. Non bisogna avere paura di sbagliare, perché l’errore è anch’esso ricerca. L’errore fa parte delle nostre azioni che, una dopo l’altra,  più o meno intenzionalmente, tentano di tracciare il nostro percorso verso la verità.