Secondo episodio della serie di articoli dedicati all’analisi della working class nella letteratura economica. Qui il primo.

Il concetto di Working class sorge nella tarda età moderna per indicare tutta quella serie di lavoratori che contribuiscono al processo produttivo fornendo la propria forza lavoro. Data la forte variabilità dell’impiego e del contesto in cui gli individui operavano – braccianti, bottegai, apprendisti, artigiani e operai specializzati –  il termine si declinava al plurale: working classes. Da questi lavoratori si devono distinguere gli agricoltori, i quali incentravano la propria produzione sul possesso o l’uso della terra come fattore produttivo.

E’ a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo che, con il successo e la diffusione della Rivoluzione industriale, alla classe dei lavoratori si collegò sempre più quell’insieme di individui impiegati come salariati in lavori manuali, all’interno delle nuove industrie manifatturiere o proto-industriali, strutture che stravolsero non solo le abitudini lavorative e quotidiane, ma mutarono profondamente l’aspetto delle città europee, donando una forte visibilità a questo emergente gruppo sociale. L’urbanizzazione, la crescita demografica e il consolidamento del sistema di produzione e distribuzione capitalistico hanno innescato, nel corso del XIX secolo, quel processo di “proletarizzazione” per il quale una sempre maggiore quota della popolazione mondiale divenne dipendente da un unico tipo di reddito e pertanto socialmente vulnerabile.[1]

Marx non è stato il primo a dedicare ampie riflessioni ai lavoratori. Già Smith, sulla scia di Cantillon e Quesnay, considerava la società inglese settecentesca divisa in tre classi: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri (con le tre forme di reddito a loro connesse: salario, profitto e rendita).[2] Marx e la teoria marxista ortodossa hanno reso la prima di queste innanzi tutto un soggetto politico, oltre ad un oggetto di indagine al centro di una letteratura smisurata. Tuttavia, è importante evidenziare come Il Capitale non sia lo studio della classe lavoratrice o del fattore lavoro, ma un’analisi delle dinamiche e delle logiche del capitale.[3] Del resto, l’opera di Marx avrebbe dovuto essere la prima parte di un lavoro in sei parti, fra le quali avrebbe avuto posto anche quel “Libro sul lavoro salariato” che non vide mai luce. Ciò aiuta a comprendere un paradosso: il soggetto centrale del programma politico di Marx non gode di una teorizzazione organica. Per cogliere l’analisi marxista della Working class è necessario unire e combinare le visioni provenienti dai suoi diversi scritti.[4]

Come definisce Marx la classe dei lavoratori? Questa è l’insieme di «quei lavoratori e lavoratrici che, in quanto individui liberi, possono disporre della propria forza lavoro come di una merce propria, pur non avendo nessuna altra merce da vendere».[5] Per Marx la Working class è formata unicamente da lavoratori salariati liberi (free wage-labor), poiché solo questi possono offrirsi liberamente nel mercato, rendendo la propria forza-lavoro un oggetto di scambio e quindi oggetto del processo capitalistico stesso di produzione e mercificazione.[6] Il capitalismo è dunque il sistema di produzione basato sul lavoratore salariato e libero, ossia capace di collocare sul mercato la propria forza-lavoro che è in suo possesso esattamente perché è un individuo libero.[7] In altre parole, per Marx il capitalismo nel tempo avrebbe eliminato ogni traccia di ulteriori forme di lavoro, come la schiavitù o simili condizioni di subalternità, le quali erano «una anomalia contraria al sistema borghese» e per questo sarebbero decadute e infine scomparse di fronte all’avanzare dell’industria moderna.[8] Tuttavia, le evidenze empiriche odierne smentiscono chiaramente tale previsione. Oggi, al contrario, è ragionevole ammettere che nella realtà dei fatti la mercificazione del lavoro assuma molteplici forme, fra le quali il lavoro salariato è solo uno dei tanti esempi.[9]

Alla base di tale equivoco vi è in Marx un’errata distinzione fra lo schiavo e il salariato “libero”. Merita analizzare criticamente insieme le somiglianze e le differenze nella teoria marxista. Innanzitutto, entrambe le forme di lavoro producono un surplus di prodotto e richiedono una supervisione da parte del padrone o dirigente. D’altro lato, Marx pone in risalto alcune differenze secondo lui centrali e che motivavano la seguente affermazione: il free wage-labor è l’unica forma di lavoro compatibile con il modo di produzione capitalistico. Da cui il corollario: la working class all’interno del regime capitalistico sarà progressivamente formata solo da salariati “liberi”. Sintetizziamo le differenze:

  • I salariati offrono sul mercato la loro capacità lavorativa (servirebbe distinguere fra la capacità lavorativa e la forza lavoro) ed è da questa che ha origine il valore della produzione. Al contrario, secondo Marx, lo schiavo vendendo se stesso non produce plusvalore, ma «il prodotto del suo lavoro rappresenta l’interesse sul capitale investito nel loro acquisto». E’ giusto affermare che solo il salariato produce l’equivalente del proprio lavoro più un’eccedenza?[10]
  • La forza lavoro posseduta da un individuo può entrare a far parte del circolo produttivo capitalistico solo se appare sul mercato sotto forma di merce, ma questo può avvenire solo se il lavoratore dispone liberamente di se stesso. Tuttavia, perché non considerare la possibilità che la forza lavoro possa essere offerta sul mercato da una persona differente dal suo possessore?[11]
  • Il salariato compone il capitale variabile, mentre lo schiavo il capitale fisso – essendo paragonabile a un macchinario – e nella teoria di Marx solo il primo produce un surplus di valore. Ma è realmente vero che lo schiavo e il capitale fisso non creino valore?[12]
  • Il salariato cede la propria forza lavoro per un determinato periodo di tempo, e può solo questo, poiché «se la vendesse tutta insieme e una volta per tutte finirebbe per vendere se stesso», trasformandosi in schiavo. Tuttavia, recenti studi hanno sottolineato come la differenza fra le due forme di lavoro non consista tanto nel «dato periodo di tempo» per il quale la forza lavoro viene ceduta, ma «nel fatto che in un caso essa viene ceduta in affitto e nell’altro viene venduta».[13]

Da questa breve analisi, cosa ne consegue? Principalmente due riflessioni. In primo luogo, il marxismo eterodosso e la storia del lavoro hanno compreso come i concetti ottocenteschi di proletariato e di Working class, che troviamo in Marx e in molti altri autori, debbano essere profondamente rivisti alla luce delle trasformazioni economiche e sociali del capitalismo contemporaneo.[14] In secondo luogo, si comprende che, oggi come ieri, il «lavoro salariato, assunto da Marx a modello della classe lavoratrice, costituisce in realtà una specifica tipologia di mercificazione autonoma, ossia, quella in cui il portatore è, al contempo, possessore e venditore della propria forza-lavoro».[15] Dunque, se queste sono le premesse, la sfida odierna è quella di cogliere e riunire in un’unica teorizzazione e in un singolo schema interpretativo, validi globalmente, questa molteplicità di forme di mercificazione del lavoro, le quali oggi si stanno disseminando così velocemente ed eterogeneamente da correre il rischio che si nascondano in pericolose “zone d’ombra”.


[1] M. van der Linden, K. H. Roth (a cura di), Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First Century, Leiden-Boston, 2014, pp. 16-17.

[2] A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, Roma-Bari, Editori Laterza, 2003, p. 143.

[3] E. P. Thompson, The Poverty of Theory and Other Essays, London, Merlin, 1978, p. 164.

[4] M. van der Linden, Chi sono i ‘lavoratori di tutto il mondo’? Marx, e oltre, in L. D’Angelo e C. G. De Vito (a cura di), Il lavoro come merce. Capitalismo e mercificazione del lavoro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018, pp. 31-34.

[5] Ivi. p. 45.

[6] M. van der Linden, Workers of the World. Essays toward a Global Labor History, Leiden-Boston, Brill, 2008, pp. 18-19.

[7] Ivi. p. 19.

[8] K. Marx, Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy, Harmondsworth, Penguin, 1973, p. 287.

[9] M. van der Linden, Workers of the World. Essays toward a Global Labor History, cit., p. 20. Si legge: «It seems more reasonable to admit that in reality labor commodification takes many different forms, of which the free wage-earner only selling his or her own labor power is only one example».

[10] M. van der Linden, Chi sono i ‘lavoratori di tutto il mondo’? Marx, e oltre, cit., pp. 47-48.

[11] Ivi. pp. 48-49.

[12] Ivi. pp. 49-51.

[13] Ivi. pp. 51-54. Cfr. T. Kuczynski, What is Sold on the Labour-Market?, in M. van der Linden e K. H. Roth (a cura di), Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First Century, cit., pp 305-318.

[14] M. van der Linden, Workers of the World. Essays toward a Global Labor History, cit., pp. 19-20.

[15] L. D’Angelo e C. G. De Vito, Il lavoro in una prospettiva globale, in L. D’Angelo e C. G. De Vito (a cura di), Il lavoro come merce. Capitalismo e mercificazione del lavoro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018, p. 17.