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La comparazione tra diverse political economies è un metodo molto interessante per enfatizzare le asimmetrie istituzionali ed economiche che coesistono nell’Eurozona. In questo campo di ricerca, Varieties of Capitalism ha assunto una posizione predominante e si rivela un approccio molto proficuo per comprendere le reazioni alla crisi nei diversi paesi europei. Come efficacemente descritto da Johnston, Hancke e Pant[1] le economie con istituzioni corporative, ossia quelle che in Varieties of Capitalism sono definite Coordinated Market Economies (CMEs), hanno reagito meglio alla crisi a causa di un sostanziale vantaggio istituzionale. 

 

Gli autori di questo studio identificano questo vantaggio con la capacità intrinseca di questi sistemi istituzionali di mantenere strettamente collegati gli aumenti salariali dei settori protetti a quelli dei settori soggetti a competizione internazionale. In altre parole, poiché il processo di negoziazione salariale è dominato dalle imprese a forte vocazione esportatrice – quindi le più esposte alla competizione internazionale – il risultato sarebbe una pressione moderatrice anche sui settori protetti. Grazie alla propria peculiare struttura istituzionale, quindi, i paesi con un sistema istituzionale riconducibile alle CMEs – ovvero quelli dell’Europa continentale, storicamente maggiormente sincronizzati con i cicli economici tedeschi – sono riusciti a contenere meglio le spinte inflattive intrinseche alla negoziazione salariale. Il risultato di tale capacità sarebbe un contenimento del tasso d’interesse reale con conseguenti effetti benefici sulla competitività.

 

Ecco, competitività è la parola chiave del mio ragionamento. L’aspetto più interessante della comparazione dei tipi di economie è quello di mettere in luce come la crisi dell’Eurozona non sia esclusivamente una crisi fiscale – come spesso identificata nel Brussels-Frankfurt consensus – quanto una crisi di competitività intrecciata a una crisi bancaria e del debito sovrano. La critica della lettura predominante dell’Euro-crisi è quindi un aspetto molto rilevante all’interno del dibattito collegato alla comparazione dei diversi tipi di capitalismi. Questa letteratura si fonda, infatti, sulla capacità di competere – in un mercato sempre più globale – detenuta da ogni tipo di assetto politico-economico grazie ai propri vantaggi comparati. Viene, insomma, contestata l’ipotesi di convergenza verso un unico modello istituzionale sotto la pressione della crescente internazionalizzazione dei mercati.

 

Di conseguenza ci si aspetta che una forte reazione negativa verso la globalizzazione – o l’integrazione Europea, intesa qui come fenomeno capace di promuovere una convergenza politica e istituzionale – sia da attendersi solo se questa è accompagnata da un tentativo di muovere un paese dall’equilibrio politico-istituzionale esistente. Volgendo lo sguardo all’Eurozona si capisce immediatamente come questo sia esattamente ciò che è avvenuto subito dopo l’esplosione della crisi. Le istituzioni comunitarie hanno, infatti, attivamente supportato politiche di moderazione salariale e contenimento fiscale che si sono rivelate poco efficaci nei sistemi politico-istituzionali dei paesi periferici dell’Eurozona. Questi paesi, infatti, appartengono generalmente alle cosiddette Mixed Market Economies (MMEs), ovvero economie in cui la capacità di concertazione e coordinamento tra attori rilevanti è inferiore a quella delle CMEs. Coerentemente con quanto affermato dalla letteratura basata sulla comparazione dei sistemi istituzionali, il tentativo di muovere un assetto istituzionale verso un altro modello ha provocato un aumento della disaffezione e del discontento verso il processo d’integrazione Europea.

 

Perché tutto questo ragionamento è rilevante per lo scenario attuale? È del tutto evidente che se le politiche comunitarie si sono rivelate poco efficaci nelle MMEs è esattamente in questi paesi che possono crescere maggiormente le richieste per soluzioni differenti. Guardando l’Italia non è quindi un caso che si sia riaccesa con forza la tematica dell’uscita dall’Euro ora che il Movimento 5 Stelle ha sciolto la propria precedente ambiguità sul tema. In aggiunta, è doveroso ricordare come il tutto avvenga in un contesto che vede l’Italia al penultimo posto nell’Eurozona per supporto alla moneta unica[2]. Per dire, dietro di noi si trova solamente Cipro. Addirittura in Grecia il supporto per l’Euro è maggior al momento. Il contesto generale è molto importante perché dà la misura di quanto il riemergente dibattito sulla moneta unica possa fare presa su un opinione pubblica i cui sentimenti verso l’Europa sono stati, come minimo, fiaccati da anni di recessione praticamente continuativa e da istituzioni sempre più percepite come distanti e iper-burocratiche.

 

Detto ciò – e con questo ritorniamo al punto centrale del ragionamento – c’è una significativa lacuna in tutto il dibattito sull’Eurexit, e questa lacuna ha molto a che vedere con la competitività. La mancanza è pertanto principalmente sul che cosa fare dopo. Uscire dall’Euro con quale obiettivo finale? Quale politica economica hanno in mente per l’Italia coloro che si fanno portatori di una simile strategia? Allo stadio attuale è difficile capirlo. Lo studio comparato dei diversi tipi di capitalismo rende chiaro come ogni tipo economico-politico possa essere competitivo nello scenario internazionale sfruttando i propri vantaggi comparati. È altresì vero, però, che questi vantaggi devono essere perseguiti con politiche economiche coerenti.

 

Per questo motivo, se lo scopo di un’uscita dall’Euro è solo rendere più competitivo il proprio export nel breve periodo possiamo dire fin da subito che i vantaggi istituzionali offerti dalle istituzioni delle CMEs a quei paesi che – come la Germania – hanno un modello di crescita economica trainata dall’export non verrebbero annullati. Nell’attuale sistema di produzione internazionale è molto difficile pensare che le produzioni a basso costo e scarsa innovazione – che erano centrali in tante PMI – tornino in Italia semplicemente grazie a una svalutazione. Nel sistema economico corrente – e dati i tipi di produzioni industriali – in una gara alle esportazioni basata sui prodotti ad alto livello di specializzazione o ad alto valore aggiunto è quantomeno dubbio che si possa risolvere lo svantaggio con le CMEs semplicemente con una svalutazione.

 

Per questo motivo vorrei che un’eventuale discussione sull’Euro fosse fatta avendo come punto cruciale la competitività e la conseguente politica economica auspicata. Quali produzioni industriali si pensano di favorire? Quale ruolo per l’innovazione? Un’uscita dall’Euro nell’attuale sistema internazionale – dominato da un preciso pensiero economico – avrebbe dei costi importanti e non sottovalutabili. Scegliere di ritornare a una moneta nazionale supportando dei costi rilevanti e poi – causa credibilità persa con i mercati finanziari – dover ancorare il cambio a quello della Germania in una sorta di riedizione dello SME sarebbe un’operazione quantomeno difficile da comprendere. Per questo nel dibattito che si potrebbe aprire nei prossimi mesi sarà importante insistere su questo tema: come rinnovare la competitività del sistema produttivo e istituzionale. In caso contrario si rischiano solamente di creare false aspettative e illusioni su quello che una scelta apparentemente scontata come abbandonare una nave in crisi possa effettivamente produrre.

 

Francesco Galletti, PhD candidate all’Università di Salisburgo

 

 

[1]Johnston, A., Hancké, B. and Pant, S. (2013), ‘Comparative Institutional Advantage in the European Sovereign Debt Crisis’, LSE Europe in Question Discussion Paper Series, 66/2013.

[2]Eurobarometer (2014), ‘The Euro Area’, Report 405 – Survey conducted and published in October 2014.