Cyril L. R. James nel 1938 scrisse che «lavorando e vivendo insieme in squadre di centinaia di individui nei grossi zuccherifici disseminati nella pianura settentrionale, [gli schiavi di Santo Domingo] somigliavano più di ogni altro gruppo di lavoratori dell’epoca a un proletariato di tipo moderno».[1]
Le quanto mai più appassionanti pagine di “Giacobini Neri” dipingono velocemente una suggestione che i recenti studi di storia del lavoro tendono a confermare: il moderno labour management non sarebbe frutto della prima e seconda rivoluzione industriale europea, non sarebbe stato formalizzato originariamente all’interno delle fabbriche che impiegavano lavoratori salariati liberi, ma all’interno dei sistemi produttivi coloniali delle piantagioni che impiegavano lavoro forzato e schiavile. In tal senso, le piantagioni e le altre istituzioni coloniali funzionarono da laboratorio per il labour management moderno, e attraverso un processo di trasferimento cognitivo questi saperi ed esperienze passarono dal “Sud” al “Nord” del mondo, e dal lavoro non libero a quello salariato.[2]
Ma cos’è il labour management e cosa afferma la storiografia tradizionale che questa nuova interpretazione vuole mettere in discussione? Per labour management si intende l’insieme di tecniche di controllo e organizzazione della forza lavoro impiegata nel processo di produzione al fine di garantire un certo livello di produttività. Nelle narrazioni storiografiche del XX sec. il labour management sarebbe sorto fra il XVIII e il XIX sec. in Nord Europa a seguito dell’emergere dei sistemi di fabbrica e della logica di produzione capitalistica. In questi anni i managers non dovevano preoccuparsi unicamente del risultato concreto del ciclo produttivo, in termini di quantità e qualità, ma anche dei costi e delle modalità con cui tale ciclo avveniva, ragionando in maniera competitiva.[3] La storiografia liberale ha fondato l’intero approccio alla storia del labour management su due assunti. In primo luogo, il modello e il filtro di analisi sono rimasti eurocentrici, analizzando le dinamiche interne di paesi come Regno Unito, Francia, Germania e USA, senza allargare l’orizzonte altrove. In secondo luogo, oggetto dominante degli studi è stato il lavoro salariato libero, con poche eccezioni su forme di lavoro forzato. Un punto che non ci sorprende se ricordiamo come persino nel pensiero di Marx il capitalismo è un sistema produttivo basato sul lavoro salariato, in cui le altre forme lavorative sono “anomalie”.[4]
In un articolo del 2018 lo storico olandese Marcel van der Linden dichiara esplicitamente che, «muovendo in direzione opposta» alla letteratura precedente, tre sono i suoi obiettivi, ovvero mostrare come:
– importanti innovazioni sono emerse nel mondo coloniale come tentativi di controllare il lavoro forzato;
– alcune di queste innovazioni nacquero e vennero impiegate molto prima della Rivoluzione industriale e altrove rispetto all’Europa;
– i saperi legati a queste innovazioni si sono successivamente diffusi all’interno di quella “economia-mondo”.[5]
Sul piano metodologico due scelte permettono allo studioso di suggerire questa nuova interpretazione: l’abbandono dell’ottica eurocentrica e l’impiego della global history. Con questi obiettivi e metodi Linden analizza due case studies: le Barbados del XVIII sec. e l’Australia del XIX sec.
Le conclusioni sono le seguenti. Nel sistema coloniale l’intero processo produttivo era ad alta intensità di lavoro, con bassi rendimenti e richiedeva un’attenta pianificazione e supervisione per ragioni di ordine sociale e produttività. In altre parole, la produzione coloniale era scarsa di capitale ma ricca di terra e di lavoro, generando uno squilibrio pericoloso fra i fattori produttivi che rendeva fondamentale la gestione della forza lavoro.[6] Tale gestione era perseguibile in due modi: sorvegliando il lavoro e dirigendo il risultato. L’obiettivo era mantenere una subordinazione permanente del lavoro al capitale attraverso un disciplinamento reso possibile – nonostante la situazione di svantaggio del latifondista bianco sullo schiavo di colore – dall’impiego di un potere biopolitico (nell’accezione celebre di M. Foucault), il quale trovava fondamento e legittimazione sulle basi corporative e razziali delle strutture sociali e culturali del mondo coloniale. Nelle piantagioni la divisione minuta del lavoro, il lavoro di squadra e l’esclusione degli schiavi dal corpo sociale e politico permettevano ai proprietari di esercitare uno straordinario potere di supervisione e disciplinamento sulla manodopera schiavizzata.[7]
La pionieristica analisi di Foucault[8] sul potere di disciplinamento insito nel processo di divisione del lavoro, delle tecniche di organizzazione produttiva e nelle innovazioni tecnologiche nel corso dell’età moderna e contemporanea è cruciale per comprendere come il controllo totalizzante del processo lavorativo abbia rappresentato una tappa fondamentale per la costruzione del moderno e industrializzato labour management. E la recente global labour history ha mostrato come tale controllo totalizzante sia stato strettamente legato storicamente all’impiego di lavoro forzato-schiavile, e come questa proficua esperienza sia stata perfezionata e consolidata nelle colonie per poi arrivare in Europa nel corso del XIX sec. Quindi, oggi serve studiare e sostenere che una serie di tecniche di gestione della manodopera e del processo produttivo di stampo industriale siano state inventate in contesti non liberali, molto prima di essere applicate in Europa, in rapporto non a un lavoro salariato ma forzato, non all’interno di una logica pienamente capitalistica ma di sfruttamento coloniale, non da parte della borghesia ottocentesca imbevuta di spirito positivista ma da una elitè locale extra-europea ai danni di schiavi e ceti indigenti.[9]
Viene, infine, da chiedersi attraverso quali “vie” e con quali variazioni questo “capitale cognitivo” (ovvero la «diretta supervisione sul lavoro» e la «standardizzazione dei processi di lavoro») siano state trasferite dal “Sud” del mondo al “Nord”.[10] È un campo in cui gli studi coloniali e post-coloniali dovranno rivolgere maggiormente lo sguardo.
Da questa breve disamina emerge che il colonialismo non ha solo fornito le risorse materiali e finanziarie all’Europa per permettere lo sviluppo capitalistico dell’XIX e XX sec., ma quel mondo ha anche svolto una funzione di “laboratorio” per il futuro europeo. I sistemi economici e sociali coloniali non solo fornirono importanti esperienze per il labour management, ma anche alcuni aspetti centrali del novecentesco scientific management. Alla luce di ciò la definizione e la concezione attuale intorno alla nascita del capitalismo – in Inghilterra, in un contesto prettamente liberale, borghese e illuminato – potrebbero essere rivisitate qualora si scegliesse di far ricerca assumendo categorie di analisi nuove, superando i vecchi e tradizionali schemi della letteratura storiografica ed economica liberale e capitalistica, nonché del cosiddetto “nazionalismo metodologico”.
I vantaggi di una prospettiva non eurocentrica sono ovvi e intuibili in un mondo che sempre più percepiamo globale. Nel nostro caso tre cose impariamo dalla global history: alcuni sviluppi essenziali della storia del lavoro hanno avuto inizio ben prima di quanto si pensasse in precedenza; questi iniziarono avendo come protagonisti i lavoratori non-liberi e non quelli salariati-liberi; ciò avvenne non in Europa o negli Stati Uniti, ma nel “Sud” del mondo.[11] Ma non solo. Ci fa notare anche come parlare di “Sud” può esser fuorviante, in quanto questo “Sud” si è ampiamente impiantato nel “Nord”.
[1] C. L. R. James, I Giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, trad. di R. Petrillo, Milano, Feltrinelli editore, 1968, p. 86.
[2] M. van den Linden, Il lavoro forzato come laboratorio dell’organizzazione moderna del lavoro, in L. D’Angelo e C. G. De vito (a cura di), “Il lavoro come merce. Capitalismo e mercificazione del lavoro”, Milano, Mimesis Edizioni, 2018.
[3] Cfr. S. Pollard, The genesis of Modern Management. A study of the Industrial Revolution in Great Britan, London, Edward Arnold, 1965.
[4] M. van den Linden, op. cit., p. 72.
[5] Ibidem; per riferimenti alle dinamiche geopolitiche e geoculturali proprie dell’“economia-mondo” cfr. I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi mondo, Trieste, Asterios Editore, 2018 (ed. or. 2004).
[6]M. van den Linden, op. cit., p. 75-76.
[7]Cfr. R. W. Fogel, Without Consent or Contract. The rise and fall of American Slavery, New York, Norton, 1989.
[8] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.
[9] M. van den Linden, op. cit., p. 84-85.
[10] Ivi. pp. 84-93.
[11] Ivi. p. 121.