Dal terzo incontro del ciclo di seminari sulle scuole di pensiero economico organizzato da Rethinking Economics Bologna. Il professor Gattei ci descrive la visione marxista dell’economia, dalle intuizioni di Marx al dibattito successivo. Si ringrazia Cristina Re per questo articolo.
Per introdurci a Marx il professor Gattei parte da due considerazioni riguardanti l’economia moderna ed il profitto capitalistico.
1) L’economia odierna è mercantile, monetaria e capitalista: mercantile perché viviamo in un sistema di mercato, composto da una fitta rete di scambi, e monetaria perché la maggior parte di questi scambi avviene tra merci (A e B) di valore equivalente (MA = MB) con la moneta come controparte (D = MB). L’ultima qualificazione dell’economia odierna è quella più problematica: in un’economia capitalista, il denaro non viene più utilizzato per acquistare le merci ma i lavoratori; più precisamente la loro forza-lavoro, ovvero la capacità dei lavoratori, provvisti di adeguati mezzi di produzione, di produrre qualsiasi merce (D = FL).
2) Le merci prodotte in un processo di produzione capitalistico sono proprietà del capitalista, il quale le vende e le converte in denaro; l’esito di questo processo è il profitto capitalistico ( Π ). Si tratta della formula della circolazione capitalistica di Marx: con il denaro si compra forza-lavoro, con cui si realizza un processo di produzione il cui esito è nuovamente denaro (D –> FL –> M –> D’). Affinché questo processo sia stabile si deve produrre più denaro di quanto necessario ad avviarlo, ovvero generare un profitto positivo ( D’ – D = Π > 0 ); tuttavia, può entrare in crisi se la forza-lavoro non è sufficientemente ampia o produttiva, o se non si riesce a riconvertire la produzione in denaro.
Poste queste osservazioni, entriamo nel corpo della teoria marxiana, sfruttando due ipotesi di base: una precedente a Marx e una successiva.
La teoria marxista è una teoria macroeconomica: l’oggetto di studio non può essere solo una parte del sistema, come i singoli prezzi o le singole funzioni di produzione, ma il sistema nel suo insieme; questo è un contributo di Alfred Marshall e John Maynard Keynes (1936), che ci hanno spiegato come ragionare in termini di economia aggregata.
In secondo luogo, l’oggetto di studio è il prodotto netto (PIN) e non il PIL, riprendendo il successivo contributo di Piero Sraffa (Produzione di merci a mezzo di merci, 1960). Il PIN (YP) è ciò che resta del prodotto lordo (Y) una volta sottratto il valore delle merci necessario a reintegrare i mezzi di produzione (K): YP = Y – K . Sraffa sostiene che, a livello macro, è possibile togliere dalla funzione aggregata di produzione il valore del capitale e scoprire così che il prodotto netto non è una funzione del capitale ma della forza-lavoro. Lo studio del PIL viene considerato mistificante in quanto distoglie l’attenzione da questa relazione tra prodotto e forza-lavoro. Il prodotto netto è il surplus, cioè il valore aggiunto creato al netto dei mezzi di produzione, ed in quanto tale è più appropriato del PIL per misurare le capacità produttive di una nazione.
Si giunge così all’uguaglianza tra il valore delle merci ( Yλ ) ed il lavoro vivo ( LV ); quest’ultimo può essere espresso come un multiplo della quantità di lavoro (mL) tramite l’equazione di neo-valore lavoro: Yλ = LV = mL . Questa è una misura aggregata del tempo di lavoro che tiene conto anche di altri fattori, come l’impegno profuso; anche questa è derivata dal contributo di Sraffa. Vale la pena ricordare che questa relazione tra surplus e valore-lavoro era stata suggerita già da Smith, il quale scriveva ne La Ricchezza delle Nazioni che “Il valore [di scambio] di una merce […] è pari alla quantità di lavoro che essa permette di acquistare” (Smith, 1776).
Sottratti i capitali necessari alla produzione dal PIL resta il prodotto netto ( YP ), o profitto, che viene spartito tra famiglie e imprese (o tra lavoratori e capitalisti), in salari (W) e redditi alle imprese (P): YP = W + P . Questo profitto non può essere distribuito se non ai prezzi di produzione, ma ciò non intacca l’uguaglianza stabilita da Marx tra la somma del valore-lavoro e il prodotto aggregato: YP = Yλ , per la condizione di trasformazione del valore lavoro in prezzi. Conseguentemente, la somma dei prezzi delle merci prodotte è uguale alla somma del valore-lavoro delle stesse: la somma dei salari (W) e dei profitti (P) è uguale alla somma del valore prodotto dal lavoro (o lavoro vivo):
YP = Yλ => W + P = mL = LV . Ciò significa che la ricchezza di una nazione si misura sulla somma dei redditi, che è una funzione del lavoro vivo. Anche questa relazione era stata suggerita già da Smith: “Il lavoro non misura solo quella parte di prezzo che si traduce in salario, ma anche quella che si traduce in profitto” (Smith, 1776).
Il profitto dunque è una funzione del lavoro; nel processo capitalistico però il profitto, cioè il ricavato delle merci, spetta al capitalista. I lavoratori attraverso il salario ricevono una parte del prodotto netto: W = αYP = αmL = αLV (con α minore di 1), il che significa che ad ogni ciclo di produzione il lavoro viene pagato solo una frazione del valore che produce. Ne segue che quando si spende il salario si recupera una parte di lavoro vivo, e questa parte rappresenta il cosiddetto lavoro necessario (LN): necessario per la sussistenza, la riproduzione e la formazione. Se il salario è solo una frazione del valore vivo (lavoro vivo meno lavoro necessario), il resto è il rendimento del capitale. Nel processo di produzione capitalistico, quindi, il lavoro vivo genera un valore maggiore di quello iniziale, il che permette la retribuzione dei lavoratori ed assicura il rendimento dell’investimento al capitalista. La teoria di Marx si poggia sulla teoria smithiana del valore-lavoro ma la porta avanti, scoprendo che il profitto è generato dallo sfruttamento della forza-lavoro.
Se accettiamo l’impostazione marxiana il profitto, infatti, corrisponde al plus-lavoro ed è il risultato di questa equazione:
Π = YP – W
= LV – LN
= mL – αmL
= (1 – α ) mL
Conseguentemente, il profitto deriva dallo sfruttamento della forza lavoro.
Considerando che l’obiettivo dei capitalisti è la massimizzazione del profitto, essi possono usare tre leve per ottenere ciò, corrispondenti alle tre variabili presenti nell’equazione tra profitto e plus-lavoro: la quantità di lavoro L, la produttività del lavoro m o il coefficiente α che determina la parte di valore che si risolve in salario.
Massimizzare L significa massimizzare la quantità di lavoro che viene impiegata nella produzione complessiva, ossia il prodotto tra quantità di lavoratori e quantità di ore-lavoro giornaliere. Per fare ciò basta assumere più lavoratori o farli lavorare di più e più a lungo (attraverso l’aumento dell’età lavorativa).
È possibile minimizzare α abbassando i salari oppure aumentando i prezzi (attraverso l’inflazione), in entrambi i casi con lo scopo di abbassare i salari reali.
Massimizzare m, cioè il moltiplicatore che dal lavoro vivo dà il valore della produzione, significa massimizzare la produttività netta del lavoro. La produzione su grande scala dipende, infatti, dalla qualità del capitale di produzione e della forza lavoro e dall’organizzazione del lavoro e del capitale. Secondo Marx, dovrebbe essere istinto immanente e tendenza costante del capitale, aumentare la produttività del lavoro, per ridurre il costo dei beni e del lavoro stesso.
Secondo il professor Gattei, tutti i segnali lasciano intendere la tendenza ad aumentare L o ad abbassare α. Ne sono esempi fenomeni come la delocalizzazione, l’allungamento dell’età lavorativa, la diffusione e la legittimazione del precariato che sembrano parte di un processo inarrestabile.
Abbracciare l’impostazione marxista oggi ha diverse conseguenze rilevanti: innanzitutto, i fenomeni summenzionati non possono essere visti semplicemente come parti del processo di globalizzazione economica; al contrario, sono l’effetto di scelte più o meno consapevolmente informate da una logica precisa, che individua la via per la prosperità nell’aumento di L e nella diminuzione di α. In secondo luogo, la visione marxista indica un’altra via, in netto contrasto con ciò che osserviamo: sfruttare la produttività e non i lavoratori o, per dirla con Lenin, “meglio (lavorare) meno ma meglio” (Lenin, 1923). Da questa analisi e da questo obiettivo derivano delle precise prescrizioni: contrastare l’aumento della platea dei lavoratori (lavorare meno); contrastare l’aumento della giornata lavorativa (lavorare meno); rifiutare il calo dei salari; combattere l’inflazione e battersi per lo sviluppo, a tutti i livelli, della produttività del lavoro.