Dal secondo incontro del ciclo di seminari sulle scuole di pensiero economico organizzato da Rethinking Economics Bologna. Il professor Ricottilli ci introdurrà a neo- e post-keynesiani a partire dalle teorie della moneta e dell’investimento classica, neo-classica e keynesiana. Si ringrazia Jan Mazza per quest’articolo.
Il professor Ricottilli ha scelto la moneta come punto di partenza. La moneta, per il pensiero classico nulla più che un mezzo di scambio il cui significato giaceva nella traduzione nominale di un’operazione di scambio o di produzione reale, nell’opera keynesiana diventa un fattore fondamentale nella determinazione del risparmio, insieme alla domanda effettiva e al concetto di aspettative cui è indissolubilmente legata. Due idee ben diverse quindi, a partire dalle quali si costruiscono altrettanto diverse teorie degli investimenti.
Nella teoria classica, il risparmio determina l’investimento: la parte di prodotto netto sopravvissuta al consumo costituisce lo stock di risorse per l’investimento, realizzando quell’identità contabile S=I che ogni studente di macroeconomia incontra nei primi giorni di lezione. La moneta (o qualsiasi altro equivalente generale), viene considerata merce tra le merci ed è pertanto soggetta alle consuete leggi della domanda e dell’offerta: dal lato della domanda, le imprese necessitano di moneta per ampliare la propria produzione e sono disposte a pagare un prezzo per un incremento di capitale; i consumatori, dall’altro lato, richiedono una contropartita per rinunciare ad una parte dei loro consumi. In un sistema di equilibrio generale come quello neoclassico, il saggio d’interesse naturale interviene a ricomporre questo squilibrio: esso rappresenta il prezzo della moneta, incaricato di equilibrare la domanda di chi ne ha bisogno per investire e l’offerta di chi ne ha troppa per consumare.
Un concetto semplice e intuitivo in un’economia semplificata, che però diventa inevitabilmente più complesso e meno immediato quando gli agenti e le produzioni si moltiplicano. Da una parte il ruolo di equivalente generale, qualunque esso sia, assume un’importanza crescente: veicolo di scambio tra beni e servizi di cui riflette i prezzi relativi, e merce tra le merci, il possesso di moneta acquista progressivamente valore in sé. Dall’altra, le necessità di crescita del sistema economico richiedono un accantonamento supplementare di risorse da destinare alla produzione. Anche qui, di conseguenza, parte del prodotto viene sottratto al consumo e destinato all’investimento, realizzando l’identità di partenza. Nella teoria classica l’aumento delle dimensioni dell’economia non intacca il ruolo del saggio naturale d’interesse: che vi partecipino dieci o diecimila agenti, il mercato della moneta non subisce trasformazioni qualitative ed il saggio d’interesse naturale permette invariabilmente di raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta di moneta.
Questo è il fulcro della teoria classica degli investimenti e della Loanable Funds Theory (Wicksell et al.), ed è il fondamento di ogni teoria neo-classica dell’investimento: l’investimento viene determinato sempre e comunque dal risparmio. Corollario di questa impostazione è il concetto di equilibrio generale, il quale coinvolge ogni variabile e rende teoricamente impossibile l’esistenza di disoccupazione involontaria (il salario, essendo un prezzo come un altro, si aggiusta fino al livello minimo per il quale domanda e offerta di lavoro si equivalgono). In questa cornice, solo i cosiddetti fallimenti di mercato possono comporre la frattura tra costruzione teorica e osservazione empirica: così saranno, di volta in volta, le asimmetrie informative o le rigidità del mercato del lavoro a spiegare l’ostinata presenza di un tasso significativo di disoccupazione involontaria e di tanti altri disequilibri economici, di cui l’esperienza di ciascuno porta testimonianza quotidiana.
In quest’apparente stabilità, così familiare per chi studia oggi economia, manca tuttavia un fattore fondamentale: il tempo. Nella creazione di mezzi di produzione – ovvero nell’investimento capace di produrre beni finiti futuri – giocano un ruolo dirimente le aspettative sui mercati futuri (che a loro volta dipenderanno da proiezioni ancora più lontane, in un pattern teoricamente infinito).
Questa osservazione è alla base della critica di Keynes e della sua concezione degli investimenti. La moneta non è una merce come le altre – tutt’altro. La moneta è mezzo di scambio e riserva di valore, ovvero è capace di trasferire nel tempo il potere d’acquisto immediato, ed è un insieme di obbligazioni a vista del sistema bancario. Questa definizione evidenzia l’importanza del credito, una variabile strutturale che rende molto più fragile il nesso causale diretto tra offerta e domanda, suggerendo invece che la domanda di beni di consumo sia legata al reddito aggregato (a sua volta influenzato dalle decisioni di produzione). La domanda di beni d’investimento, invece, si determina in un contesto di incertezza di Knight: le percezioni degli scenari futuri da cui essa dipende sono necessariamente imprecise poiché gli esiti delle azioni presenti sono inconoscibili (cfr. incertezza e rischio di Knight).
Nell’ottica keynesiana, quindi, l’unica variabile autonoma è l’investimento. Mentre il consumo è funzione, relativamente stabile, del reddito aggregato (C=c(Y)), e il risparmio ne è la parte residua (S=Y-c(Y)), il reddito aggregato Y diventa funzione dell’investimento (Y=c(Y)+I). Autonomia dell’investimento, ovvero della domanda di beni di produzione, significa che non esistono dinamiche intrinseche al sistema capaci di imporre un equilibrio; al contrario, possono verificarsi situazioni di disequilibrio con duraturi eccessi e carenze di domanda e offerta (ed ecco perché la disoccupazione, ad esempio). Se l’investimento è autonomo, allora questo determina il risparmio: la consueta identità S=I procede in senso contrario.
È un’inversione di marcia storica che verrà in parte smorzata nella prospettiva neo-keynesiana grazie al lavoro di semplificazione e traduzione di John Hicks, ideatore del modello IS-LM: l’esistenza di disequilibri, innovazione keynesiana fondamentale, nel modello IS-LM viene di fatto edulcorata. È ancora Hicks a restituire lo studio economico ai grafici bidimensionali cui nel corso della propria storia ha testimoniato invincibile fedeltà. L’investimento torna a dipendere interamente dal saggio d’interesse, il quale determina a sua volta il risparmio; in compenso, può esistere disoccupazione in equilibrio.
Neo-ricardiani e post-keynesiani ritengono inappropriata questa rimodulazione della teoria keynesiana – impalcatura, con le dovute correzioni, dell’attuale consenso accademico. Rifacendosi a Keynes stesso ne evidenziano le criticità: l’impossibilità di determinare il livello di investimenti tramite il mero saggio d’interesse (per la presenza dei celebri spiriti animali), o la difficoltà per la Banca Centrale di controllare effettivamente la quantità complessiva di moneta (una quantità, almeno parzialmente, endogena). Al dibattito propriamente teorico se ne aggiunge un altro: neo- e post-keynesiani si contendono anche il vanto, tutto intellettuale, di essere gli autentici eredi di Keynes.
Il confronto tra queste scuole di pensiero tuttavia ha implicazioni nient’affatto secondarie. I modelli neo-classici non hanno saputo prevedere la crisi attuale, il che ne mina la credibilità. Neo-ricardiani e post-keynesiani dal canto loro non sono ancora riusciti a imporre una nuova egemonia culturale e scientifica. Se è vero che l’accademia è restia a cambiare orientamento, è altrettanto vero che le scuole di pensiero eterodosse non hanno ancora prodotto delle teorie alternative solide e complete. Allo stato dell’arte non esiste, per esempio, una convincente teoria dell’investimento: una tessera fondamentale nel mosaico keynesiano, senza la quale le conseguenti deduzioni e prescrizioni perdono incisività. Manca inoltre un consenso vasto sul ruolo della Banca Centrale nella determinazione della quantità di moneta.
La questione è tutt’altro che risolta. I modelli ora dominanti nei libri di macroeconomia appaiono insufficienti alla prova dei fatti, e le alternative, più o meno autenticamente keynesiane, scarseggiano. Ciononostante gli economisti eterodossi propongono una visione diversa di Keynes, e questo filone di pensiero resta un riferimento critico ineludibile per chiunque ambisca a una visione ampia e complessa su quello spettro di interazioni sociali, politiche, ergo economiche, che costituisce (o almeno dovrebbe) il campo di studio della nostra “scienza triste”. Oggi più che mai.